Quella lupa ‘inter Senas et Romam’.

C’è una lupa che collega Siena a Roma, che unisce i natali e il destino delle due città. A Siena potete vederla disseminata sui capitelli agli angoli delle strade, sulle colonne innalzate in prossimità dei cantoni, sui doccioni che ornano la facciata del Palazzo Pubblico. Dovunque andrete, perdendovi tra i vicoli e i Terzi di Siena, la lupa vi seguirà col suo passo silenzioso, spiandovi con occhi liquidi dall’alto di una lunetta o di un pinnacolo, come un’ombra enigmatica, che rimontando dalle nebbie del passato vigila sulle brume del presente. E non da ieri: perché la lupa si è messa a veglia della città da tempo immemorabile, almeno dai primi decenni del ‘300, quando un suo ‘simulacrum’ in pietra (molto simile alla ‘Lupa capitolina’) fu allocato sopra l’architrave di porta Romana, il varco che si apriva nella cinta di Siena in direzione Sud, verso Roma, verso il luogo in cui tutto è nato, come ad indicare con lo sguardo la ‘culla’ perduta e felicemente ritrovata.

Tuttavia, nessun Senese ha avuto chiaro sentore della sua presenza fino al secolo XIII, quando la lupa fece la sua prima timida apparizione su una delle pergamene del ‘Memoriale delle offese fatte al Comune e ai cittadini di Siena’, ordinato dal podestà Bonifazio Guicciardi per celebrare la presa di Grosseto (1224); poco più di uno schizzo di penna, ma ‘signum’ tangibile di un’idea che andava lentamente prendendo forma nella coscienza civica. Ma l’‘entrée’ della lupa nell’ufficialità dell’arte si compì solo nel 1338-1339 per mano di Ambrogio Lorenzetti, che la dipinse ai piedi del trono su cui è assiso il Bene Comune nella celebre ‘Allegoria del Buon Governo’, mentre cauta si fa largo tra gli astanti col musetto appuntito e materna lambisce con la lingua Romolo e Remo; prova del fatto che la fiera era già entrata nell’immaginario del popolo senese, a tal punto che nel 1344 l’artista volle nuovamente riprodurla, questa volta sdraiata su un tappeto color porpora, nell’atto di allattare i gemelli, su una Biccherna raffigurante il Buon Governo (piccolo capolavoro di arte senese, oggi conservato presso l’Archivio di Stato cittadino).

Nulla di straodinario in tutto ciò: ogni città che si rispetti ha il suo mito di fondazione; ma prima che esso si plasmi fin nei dettagli, stabilizzandosi e mettendo radici nella letteratura, occorrono secoli di elaborazione. E in effetti la prima versione ufficiale dell’antico legame genetico tra Roma e Siena fu messa giù, nero su bianco, relativamente tardi, dalla mano di Agostino Patrizi Piccolomini, vescovo di Pienza, che nel 1472 ne consacrò il mito nel suo ‘De antiquitate urbis Senarum’, facendo sì che – nel trascolare da leggenda orale a parola scritta – esso si imprimesse ben bene nel midollo della città e dei suoi abitanti. Da allora la storia d’amore tra Siena e la lupa non ha conosciuto fine e ha accompagnato attraverso i secoli la vita pulsante della ‘Civitas Senensis’.

Narra, dunque, il mito che Senio e Aschio, figli di Remo, si dettero alla fuga per sfuggire al pugnale dello zio fratricida, risoluto a spazzare via la discendenza del fratello, perché nessuno potesse accampare diritti sull’Urbe di recente fondazione. Ispirati da Apollo, i due fratelli asportarono il sacrario della lupa e, issati su un cavallo bianco e uno nero, si rifugiarono in terra etrusca. Gli assalti di Romolo, scagliatosi sulle tracce dei nipoti, furono però sistematicamente respinti e si conclusero con la vittoria di Senio, che celebrò la conquista della pace con un sacrificio sugli altari di Diana ed Apollo, dai quali si levò fumo bianco e nero. Nella ricostruzione letteraria del mito poterono così definirsi e coagularsi tre elementi fondanti dell’identità senese, già entrati nella memoria collettiva medievale: il nome della città (dall’eroe eponimo Senio), l’origine dell’insegna bianca e nera (la cosiddetta ‘balzana’) e l’araldica della lupa. Siena codificava così, a distanza di ventidue secoli, il suo legittimo atto di nascita.

Questa volontà di riconnettere le proprie origini a Roma, alle figure di Romolo e Remo, e risalendo più su, al ‘pius’ Enea e a sua madre Venere (olimpica dea dell’amore) assolveva, in verità, a una necessità strategica e sottilmente pragmatica: vantare un legame genetico con ‘Roma caput mundi’ significava, infatti, fare di Siena un’estensione dell’Urbe, connotarla come erede unica e regale di una città grande come un Impero, additarla come continuatrice del suo glorioso passato. Legittimare la propria esistenza attraverso la scoperta di nobili radici, anzi divine, comportava, in sintesi, la possibilità di rivendicare uno ‘status’ di superiorità rispetto a quelle città (limitrofe o nemiche che fossero) prive di pari origini. Semplice ed efficace.

Poco importa che i rapporti tra Siena e Roma, per quanto intensi e duraturi, abbiano avuto origine e sviluppi ben diversi. L’indagine storica ci dice infatti che la fortuna di Siena e del suo territorio è legata soprattutto alla via Francigena, cioè al tracciato viario che dal Nord Europa portava frotte di pellegrini e flussi di denaro inesauribili direttamente a Roma (alla tomba del Principe degli apostoli), rinsaldando su basi cristiane il cordone ombelicale nato dal mythos. A Siena ebbe i natali anche santa Caterina, dottore della Chiesa e patrona d’Europa, che tanto si prodigò, gridò e scrisse perché la Sede pontificia fosse strappata all’esilio avignonese e ricondotta a Roma (come avverrà nel 1376), e perché fossero scongiurati scismi che potessero minare l’unità della Chiesa Romana, fino al punto di morirne di consunzione. Anche sotto il profilo artistico, Roma fu per Siena faro luminoso e punto di riferimento, fonte di ispirazione e di ambizione per committenti, famiglie nobiliari, ricchi banchieri trasferitisi sulle rive del Tevere, pontefici (come Pio II e Pio III), collezionisti, bibliomani, pittori e scultori, fino al Cinquecento e al Seicento inoltrato, quando tutte le scuole artistiche guardavano con occhi fermi ed ammirati alla Città Eterna.

Ma l’armonia – si sa – non è mai una condizione permanente, neanche nelle migliori famiglie, e quello che non si verifica in ventisette secoli di storia può succedere in una manciata d’anni: tanto è bastato perché la ‘poppata’ con cui la lupa ha nutrito i mitici gemelli producesse il suo tardivo e fatale rigurgito. Così la Roma di oggi, o meglio i poteri forti romani oggi insediati ‘ad apothecas obscuras’, coi loro traffici sotterranei, hanno condannato Siena e le sue istituzioni ad una lenta e agonica morte per asfissia, rendendo ogni prospettiva di vita e di prosperità futura assai simile alle spopolate e desolate campagne dell’‘Allegoria del Cattivo Governo’, spazzando via il legame d’elezione ‘d’antan’ e trasformando Roma-madre in Roma-matrigna. La lupa ha così rivelato l’etimo stretto del suo nome e con esso se stessa: non la fiera e indomabile abitatrice dei boschi, ma la grande meretrice, giacché col termine ‘lupa’ i Latini indicavano la donna di strada e con ‘lupanare’ il postribolo. Tale diventa infatti la politica quando perde il suo rigore, l’autorevolezza, l’incorruttibilità e la credibilità insite nel concetto aristotelico di ‘Politeia’, quando degenera da ‘pensiero’ a ‘maneggio’, quando la ‘visione’ si corrompe in ‘manipolazione’, quando il ‘governo della polis’ diventa ‘compravendita delle cariche’: poco più di una donna/lupa in vendita al miglior offerente, capace di contagiare tutti coloro che entrano in contatto con lei e col suo malcostume.

Ma – fateci caso e ricordatelo sempre – c’è un elemento, un dettaglio appena percettibile, che segna in modo incisivo la distanza formale e sostanziale che corre tra la Lupa capitolina e quella senese, tra Roma ladrona e Siena libera città: la prima tiene la testa leggermente inclinata a sinistra e lo sguardo sfuggente, quella senese guarda dritto davanti a sé, digrignando i denti di fronte ad un immaginario nemico e par che dica: “Quo usque tandem, Capitolina, abutere patientia nostra?”.

“Fino a quando, Lupa del Campidoglio, abuserai della nostra pazienza?”.

 

(Libero contributo)