“Quanti autogol a sinistra per impulsività e cinismo. Ora si accetti la sconfitta”.

Francesco Merloni, industriale: “È vero che Prodi provò a tenere insieme Pd e Leu ma Renzi disse no. Ora l’orizzonte è incerto. Molto è nelle mani del presidente Mattarella”
Francesco Merloni ha 92 anni, una memoria prodigiosa e intatta, un gruppo industriale che produce caldaie per un miliardo e mezzo di fatturato annuo. Fabbriche nei cinque continenti, la prima delle quali a Fabriano, la città dove è nato e dove vive. Figlio di Aristide, il fondatore, è stato parlamentare per quasi trent’anni, dal 1972 al 2001, eletto due volte al Senato e cinque alla Camera, “quando la competizione era aperta e bisognava guadagnarsi le preferenze con i voti”. Fra il ’92 e il ’94 è stato due volte ministro dei Lavori Pubblici nei governi Amato e Ciampi. Democristiano quando c’era la Dc (nelle Marche: la Dc di Arnaldo Forlani), ulivista della prima ora con Prodi, suo buon amico. Ha tre figli, otto nipoti.

Parliamo di politica? 
“Certo. Ho un’età che mi consente di dire quello che so e che penso con estrema libertà”, sorride.

Partiamo da un riassunto breve della sua vita politica. Lei ha conosciuto Aldo Moro, veniva a inaugurare i vostri stabilimenti.
“Mi fa più giovane di quello che sono, la ringrazio. Io ho conosciuto De Gasperi. Prima sono stato condannato a morte. Richiamato alle armi dalla Repubblica di Salò quando c’era quel Mussolini che era stato riportato al governo dai tedeschi. Nel 1943. Avevo 18 anni, a Salò non mi sono presentato, mi sono nascosto. Mia mamma è stata in carcere 40 giorni: sono venuti a casa e non trovando me né mio padre hanno portato in carcere lei”.

Mi correggo, ingegnere. Temo che il riassunto, appassionante, sarebbe troppo lungo per lo spazio di questa intervista. 
“Ma certo, parliamo di oggi. In politica – vede? – ci sono i nominati, non gli eletti. La Dc era una grande casa, si faceva formazione negli anni. Non è che ci si presentava all’elettorato senza aver fatto attività politica prima. Ma tanta, a partire dai quartieri”.

Cosa pensa della nuova legge elettorale? 
“Renzi e Berlusconi si sono messi d’accordo per fare una legge ad hoc, per cui hanno avuto il diritto di vita o di morte di ogni candidatura. L’hanno fatta per frenare il Movimento 5 Stelle, ma è stato un autogol. Renzi è capacissimo negli autogol, ne ha fatti tre uno dietro l’altro. La legge elettorale, la commissione parlamentare sulle banche, la riforma costituzionale. Aveva fatto il combinato disposto della riforma elettorale con la riforma della Costituzione: si doveva assicurare altri cinque anni di dominio con una Camera sola”.

Lo conosce, Renzi? 
“Certo. Un giovane molto intelligente, decisionista, svelto. Troppo svelto. La capacità politica si attenua molto negli impulsivi. Inoltre purtroppo è un uomo in perpetuo conflitto con chi pensa possa fargli ombra. È una debolezza grande. Di recente sono stato ai 90 anni di De Mita e si diceva: noi eravamo di correnti diverse ma ci rispettavamo, una volta vinceva uno una volta l’altro. Non c’era ostracismo dell’avversario interno: è assurdo, perché la ruota gira. Renzi ha fatto un errore mortale: eliminando tutti si è fatto tutti nemici. Aveva il 40 per cento e pensava che fosse suo: invece, ha visto, non gliene è rimasto in mano neppure la metà”.

Del Movimento 5 stelle cosa pensa? 
“Le dico una cosa che ho visto qui a Fabriano. Durante la campagna elettorale chi è andato nelle frazioni a parlare un po’ di politica sono stati solo i 5 stelle. Gli altri erano tutte congreghe che si parlavano e si promettevano voti tra loro. Il Movimento è stato quell’anima popolare che è andata tra la gente: hanno conosciuto le persone, hanno dato una presenza. Per far politica bisogna essere aperti, cordiali, curiosi”.

Di Berlusconi che opinione ha? 
“Lo conosco da tantissimo tempo. Era democristiano”.

Prima di essere socialista.
“Sì. Noi con Forlani eravamo un po’ contro l’apertura a sinistra di Moro. Facemmo un convegno ad Ancona, e Berlusconi c’era. Ma poi anche dopo, da craxiano, con Forlani ha mantenuto rapporti di amicizia. Quando Arnaldo veniva in Sardegna, ospite di un amico mio, Berlusconi si invitava sempre a casa sua”.

Si invitava?
“Diceva: vengo. Un tipo simpatico. E poi avevamo un aereo insieme”.

Un aereo? 
“Un aereo che era di Borghi, voleva venderlo e siccome mio fratello Vittorio lo conosceva, insomma, l’abbiamo preso Berlusconi ed io. Poi un giorno Berlusconi mi dice: sai questo aereo va bene però bisognerebbe valorizzarlo. Riverniciamo, cambiamo le poltrone, diamo una rimodernata. Ho detto: va bene facciamolo. E lui: ci penso io. Dopo un mese dice: è fatto, venitelo a vedere. È andato uno dei miei e quando l’ha visto è rimasto così. Berlusconi mi chiama e mi dice: allora, vi piace? Beh, sì bello, dico: ma ci hai messo lo stemma del Biscione”.

Com’è finita? 
“Si è tenuto lui l’aereo”.

Lei è molto legato a Prodi. 
“Siamo amici da tanti anni. Lui è stato consulente nostro dal 1971. Quando mio fratello Vittorio fece il discorso da presidente di Confindustria le idee e le parole erano di Prodi”.

Che spiegazione si è dato della sua mancata elezione al Colle: la congiura dei 101, il punto di svolta della politica di questi anni? 
“Ma è semplicissimo. I 101 – in verità qualcuno di più, glieli potrei elencare per nome e cognome uno per uno – erano per metà di Renzi e per metà di D’Alema. Si sono messi d’accordo: nessuno dei due voleva Prodi presidente della Repubblica, per motivi diversi. D’Alema pensava forse di farlo lui, e comunque non voleva che toccasse a Prodi per ragioni di rivalsa personale. Renzi capiva che con Prodi presidente la sua carriera politica sarebbe andata in ombra. Al giro successivo di nuovo, infatti non lo ha proposto neppure la seconda volta: ha portato Mattarella”.

È vero che Prodi ha fatto un tentativo di tenere insieme Renzi e D’Alema, prima del voto? 
“Sì. Ha parlato con Renzi e con Bersani, di cui è molto amico. Ha detto a Renzi: tu dici che non ti ripresenti e c’è l’accordo con LeU. Renzi ha risposto no”.

D’Alema non è stato rieletto.
“Guardi. Io di D’Alema parlavo spesso con Ciampi. Sono stato ministro con lui e siamo diventati intimi. Veniva in Sardegna a casa nostra nel Ferragosto, passava una decina di giorni con la signora Franca, nuotavano tantissimo”.

Cosa dicevate di D’Alema? 
“Le racconto questo. Quando è caduto Prodi per un voto, la volta di Bertinotti, quella settimana si doveva fare il governo e D’Alema è andato a casa di Ciampi a Santa Severa. Carlo Azeglio mi raccontava: è stato tutto il giorno a dirmi tu lo devi fare, e io no, e lui a insistere, e io ma no. Alla fine Ciampi, insomma, ha detto sì. La mattina dopo è partito per Bruxelles e ha aspettato una telefonata. Non ha telefonato nessuno. Già nella notte successiva, dal lunedì al martedì, è uscita fuori la notizia: D’Alema presidente del Consiglio e Mattarella vice presidente”.

Capisco. 
“Eh. Sa, la politica la puoi fare solo nell’interesse di tutti, del Paese, dei cittadini: non la inganni, perché magari ti pare di aver fatto il colpaccio per te e poi quella – la politica – torna e ti viene a bussare. Possono passare anche anni, persino tanti, ma torna. Non perdona il cinismo. Se non si è in grado di andare oltre le questioni personali non si può fare politica. Guardi il quadro di questi giorni”.

Come le sembra l’orizzonte delle prossime settimane? 
“Incerto. Molto è nelle mani del presidente della Repubblica. Quel che è sicuro è che in democrazia bisogna accettare le sconfitte e tenerne conto. Purtroppo c’è un grande problema di qualità delle classi dirigenti”.

Scarsa, intende dire. 
“Scarsa perché si scelgono persone scarse che così sono più malleabili. Un errore madornale che chi ha fatto impresa conosce a menadito. In politica è fatale per la qualità della rappresentanza, genera la sfiducia dei cittadini nelle persone a cui dovrebbero affidarsi e infine nel sistema intero. Nelle aziende ti porta al fallimento”.

Molti rami dell’azienda fondata da suo padre, prima la Merloni e poi l’Ariston, hanno passato momenti di grandissima crisi, e parecchio è stato venduto. 
“Nel passaggio generazionale, negli anni della grande crisi, sì. Non il mio ramo per fortuna, che ora nelle mani di mio figlio Paolo continua a crescere. Ma vede. Mio padre Aristide era figlio di contadini, da ragazzo faceva bilance. Andava a prendere il ferro dal fabbro di Matelica, e il garzone del fabbro era Enrico Mattei. Anni dopo le bilance sono diventate bombole di gas. Era nata la Snam, che qui si diceva volesse dire Siamo Nati a Matelica tanti erano i lavoratori di questi paesi che venivano chiamati a lavorarci. Il primo nostro stabilimento è stato aperto qui. La prima preoccupazione di mio padre era dare lavoro alla gente della sua terra, per darglielo bisognava che l’azienda funzionasse, e perché funzionasse c’era bisogno delle intelligenze migliori. Mi diceva sempre: devi circondarti di competenze più alte della tua. Assumere gente, nei settori che non conosci, più brave di te. Era un altro modo di intendere la leadership, mi capisce?”.

Fonte: La Repubblica, www.repubblica.it/