PRENDE CORPO L’ASSE OBBLIGATO CON QUIRINALE E PALAZZO CHIGI.

 

La Nota
Considerare un segno di debolezza la disponibilità di Silvio Berlusconi a vedere Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi anche dopo le elezioni sarebbe fuorviante. Il messaggio che il fondatore di Forza Italia ha trasmesso ieri vuole essere rassicurante per un’Italia ansiosa di stabilità. E attribuisce al premier attuale, espresso dal Pd, una coloritura politica così leggera da ritenerlo utilizzabile comunque. D’altronde, la premessa è la stessa del Quirinale: la prospettiva che dopo il voto a marzo non ci sia una maggioranza.
Dire che in quel caso «la soluzione più corretta» sarebbe lasciare Gentiloni e tornare alle urne «dopo almeno tre mesi», significa abbracciare insieme capo dello Stato e del governo; e dimostrare realismo, rispetto a forze ossessionate da una vittoria, peraltro improbabile; e dalla voglia di cambiamenti radicali e potenzialmente traumatici. Sia chiaro: un ritorno alle urne entro giugno del 2018 rimane improbabile, nonostante i timori di ingovernabilità. Ma mostrarsi pronto a far passare in secondo piano le ambizioni del «suo» centrodestra avvantaggia Berlusconi.

Lo accredita agli occhi del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che avrà bisogno della massima collaborazione delle forze politiche. Può diminuire la diffidenza di un’Europa che di lui non ha un buon ricordo ma teme gli estremismi: anche se la frase su Benito Mussolini che «forse proprio un dittatore non era» lo condanna a un battutismo infelice. Ancora, sprizza fiducia su una affermazione del suo schieramento anche in caso di due elezioni in tempi ravvicinati.

Come effetto collaterale ridimensiona e irrita l’alleato leghista Matteo Salvini. Ed esaspera l’attesa di un M5S impaziente di incassare un eventuale primato come partito. Si potrebbe aggiungere che, liquidando come «non concorrente» il Pd di Matteo Renzi, cerca di renderlo residuale. E candida il centrodestra, e soprattutto FI, a unico argine contro il movimento di Beppe Grillo e di Luigi Di Maio. Maliziosamente, viene da pensare che concedendo continuità all’esecutivo, Berlusconi in realtà faccia di necessità virtù, perché non ha un suo candidato; e personalmente rimane incandidabile, in attesa della Corte europea di giustizia. Duque, una possibile unità nazionale è il male minore.

Eppure, rimane prigioniero di uno schema vecchio: quello di chi privilegia una mitica «società civile», che tanto civile non è. «Il rinnovamento», ha detto presentando l’ultimo libro di Bruno Vespa, «è scegliere persone che non abbiano mai fatto politica». È una carezza alle pulsioni «grilline» dell’opinione pubblica. Ma è anche la smentita delle lodi alla sua «esperienza» di politico, contrapposta all’«inesperienza» degli avversari. Così, sgualcisce la sua strategia moderata. E soprattutto, schiaccia l’Italia sul passato.

 

Corriere della Sera.

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