Polonia, i conti con la memoria.

di Sandro De Bernardin

Il 6 febbraio il presidente polacco Andrzej Duda ha firmato la legge che, emendando la precedente normativa sull’Istituto della memoria nazionale, prevede fino a tre anni di prigione per chiunque «pubblicamente e contrariamente ai fatti attribuisca alla nazione polacca o allo stato polacco responsabilità o corresponsabilità per i crimini nazisti commessi dal Terzo Reich» o per «altri crimini contro la pace, l’umanità o crimini di guerra». Sono esenti dalla sanzione le «attività culturali e storiche».

Consapevole delle forti polemiche internazionali che hanno accompagnato l’iter del provvedimento, il presidente ne ha comunque preannunciato la sottoposizione alla Corte costituzionale, per verificare se esso violi la libertà d’espressione e se risulti abbastanza chiaro quali forme di espressione debbano essere sanzionate.

Le nuove disposizioni sono state, infatti, vivamente criticate da diversi studiosi e dalla stessa International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) per la vaghezza con cui, nell’art. 55(a), esse evocano la fattispecie illecita. Esso non stabilisce quale organo e quale contenuto determineranno se una dichiarazione o una ricostruzione storica risultino punibili. Né è chiaro come si determinerà se il fatto contestato sia stato commesso nell’ambito di un’attività artistica o scientifica. O che cosa potrebbe configurare una maliziosa diffamazione della Polonia: una ricerca, una dichiarazione, le memorie di un sopravvissuto o di un testimone, il racconto di una guida turistica?

Per nessun Paese è facile fare i conti con la propria storia, specialmente nel caso dell’Olocausto. Come rendono evidenti anche le riflessioni stimolate dall’80° anniversario della promulgazione delle leggi razziali in Italia, le scelleratezze naziste hanno potuto contare su complicità e connivenze di individui, gruppi e istituzioni nei Paesi occupati. La difficoltà risulta ancor maggiore nei Paesi dell’Europa centro-orientale sui quali gravano due pesanti retaggi. Uno è il serpeggiare di un sentimento antisemita che ha dato spesso luogo, anche in un passato non troppo lontano, ad aberranti manifestazioni di violenza. L’altro è la soggezione, sino al 1989, a regimi comunisti sostanzialmente disinteressati ad un’analisi articolata delle atrocità consumatesi durante la guerra, alle quali non mancò il contributo sovietico (basti ricordare la strage di Katyn).

I Paesi occidentali hanno iniziato sin dagli anni Sessanta a coltivare la memoria e ad approfondire le vicende dell’Olocausto. Alla fine degli anni Novanta si è constatata l’esigenza di una sistematica cooperazione internazionale per approfondire la ricerca storica, per conservare testimonianze e siti, per tramandare alle nuove generazioni la consapevolezza di ciò che fu affinché il passato non si ripeta. Per questo, sulla base di una Dichiarazione adottata a Stoccolma nel 2000, si è costituita l’IHRA cui attualmente aderiscono 31 Paesi, tra i quali la Polonia. Missione dell’IHRA – di cui l’Italia avrà per un anno la presidenza a partire dal 6 marzo – è di promuovere studi di qualità, diffondere buone pratiche didattiche e museali, nonché monitorare le situazioni dei Paesi membri.

Il testo della nuova legge polacca esplicita due questioni, ma le polemiche ruotano attorno ad una terza non evocata apertamente, che nella sostanza è centrale.

La prima questione riguarda il bando di locuzioni quali “campi di concentramento / campi di sterminio polacchi”. È una pretesa sacrosanta. Il campo di Auschwitz, come tutte le altre strutture in cui si consumò la Shoah, fu voluto e gestito dai nazisti in un momento storico in cui lo Stato polacco non esisteva formalmente più. Addirittura, le sue prime vittime furono i prigionieri politici polacchi. Le locuzioni deplorate dalla Polonia sono il fuorviante frutto di una grossolana approssimazione e vanno assolutamente corrette (parlando, invece, di “campi nazisti in Polonia”). In questo senso si è chiaramente espressa la stessa IHRA in un documento approvato dalla sua Assemblea plenaria lo scorso novembre.

La seconda questione riguarda la criminalizzazione di chiunque imputi alla nazione o allo Stato polacchi la responsabilità di crimini commessi sul suolo polacco durante la guerra. Essa suscita perplessità proprio perché è pacifico che non ci poteva essere alcun atto dello Stato polacco nel periodo in cui esso non esisteva più e il Paese era occupato e terrorizzato da una potenza straniera.

Ne deriva il timore di molti studiosi che l’argomento sia stato messo in campo per mascherare la terza – e centrale – questione, quella delle relazioni tra Ebrei e polacchi durante la guerra. La Polonia ha pagato un tributo tremendo alla duplice tragedia della guerra e dell’Olocausto. Ma nemmeno la Polonia può pretendere di limitare la rivisitazione del suo passato alla valorizzazione degli aspetti più nobili. Tra i Giusti delle nazioni riconosciuti dal Memoriale di Yad Vashem i polacchi formano il gruppo più numeroso: 6.700 persone che si stima abbiano salvato 30.000 Ebrei. Ma polacchi erano anche gli autori dei pogrom di Jedwabnein nel 1941 e 1942 (e di Kielce nel 1946). E anche tra i polacchi numerosi furono delatori e collaborazionisti.

Le preoccupazioni suscitate dalla nuova legge si spiegano anche alla luce dell’aspro dibattito interno che da tempo si è acceso sulla storia dell’Olocausto in Polonia. Sulla questione della libertà di espressione diversi accademici polacchi sono già giunti ai ferri corti col proprio governo. L’approssimazione del nuovo testo legislativo fa temere a molti che la sua attuazione pratica finisca per scoraggiare ogni discussione, ogni ricerca e ogni pubblicazione di lavori che non confortino il popolare punto di vista auto-assolutorio. Quali significativi elementi di contesto si aggiungono, da un lato, le ricorrenti accuse al governo polacco di aver inficiato l’autonomia del sistema giudiziario e, dall’altro, la recente richiesta della Commissione europea di aprire un procedimento contro la Polonia per violazione dell’art. 7 del Trattato UE.

Insomma, dalle autorità di Varsavia la comunità internazionale si attende concreta dimostrazione che il loro obiettivo di tutelare il “bene pubblico” del buon nome della Polonia non è incompatibile con la tutela del “bene pubblico” – di interesse ben più generale – costituito dalla verità storica.