Politica assente, sul lavoro si muore ancora

E a Cremona, quattro giorni fa, era stato schiacciato da un cumulo di pesanti lastre un operaio sessantenne bergamasco. Il lavoro continua a pagare un altissimo prezzo di sangue, inaccettabile in una società che si considera “avanzata” ed il cui primo articolo della Costituzione ne definisce la forma democratica “fondata sul lavoro”.

Nel 2019 le vittime del lavoro avevano superato il migliaio (997 registrate al 30 di novembre), e gli infortuni denunciati si collocavano ampiamente sopra il mezzo milione (590 mila): per certi versi un bilancio di guerra. Ora, i primi cinque mesi di quest’anno non fanno intravvedere un’inversione di tendenza, anzi. Nonostante il lungo periodo di lockdown, tra gennaio e maggio l’Inail ha censito ben 378 vittime (36 in più sull’equivalente periodo dell’anno precedente), e se la forzata chiusura di alcuni settori vi ha fatto calare il numero di morti per incidenti (nell’industria se ne contano 31 in meno), in altri settori del mondo del lavoro “mobilitati” per l’emergenza, come ad esempio il terziario e l’articolata galassia raccolta nella categoria delle “altre attività” – quelle che ci hanno permesso di sopravvivere durante il confinamento in casa e ci hanno garantito assistenza e cura – le cifre sono quasi raddoppiate. Ora, usciti dall’emergenza sanitaria, entrati nella “Fase tre”, tornano a salire le morti nelle categorie tradizionalmente esposte, a cominciare appunto dall’edilizia, quasi che la riacquisita libertà di “fare” si esprimesse in un’abbassata vigilanza sulle condizioni di lavoro, a recuperare tempo e reddito perduti, costi quel che costi. Così che il “dopo virus” rischia di porci di fronte agli stessi vizi del “pre-virus”, per molti aspetti peggiorati.

Quei vizi si chiamano indebolimento e marginalizzazione del mondo del lavoro, sempre meno in grado di ottenere adeguata rappresentanza politica e sindacale e di far racconto si sé; indifferenza sociale e disattenzione nei confronti delle categorie meno visibili anche se centrali per la vita del Paese, in una società che ha confinato il lavoro, soprattutto quello manuale, in una sorta di back office invisibile e dimenticato di fronte ai settori scintillanti dell’intrattenimento, del loisir e del consumo. E infine, ultimo ma non meno importante, l’assenza dello Stato dai luoghi di lavoro: la mancanza di meccanismi pubblici di controllo sulle condizioni di sicurezza, quasi che i luoghi di lavoro godessero per loro natura di una sorta di extra-territorialità, anche se al loro interno operano dei cittadini.

Mancano gli ispettori, le procedure di verifica adeguate alle nuove condizioni, la cultura del controllo, come se evocarne la necessità fosse una sorta di lesa maestà nei confronti delle imprese. Ispettori veri, non gente che nei pochi casi in cui interviene si fa un punto d’onore nel trovare l’inadempienza a ogni costo, ma funzionari acculturati capaci di verificare le concrete condizioni di rischio e di premiare, all’opposto, le buone pratiche d’impresa. Quando una parlamentare ha suggerito l’opportunità di reclutare qualche migliaio di ispettori del lavoro e di formarli adeguatamente ha ricevuto una violenta ondata di corrucciate ripulse. E’ un pessimo segnale, d’incultura imprenditoriale e di arretratezza civile, nel momento in cui occorrerebbe invece un vero colpo d’ala nel comune sentire del mondo produttivo.

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