Il generale che sussurrava ai governi

di Gianluca Di Feo
Le memorie del novantacinquenne Roberto Jucci, coinvolto in missioni segrete sia in Italia che all’estero, sono uno specchio della storia del Paese
Il generale dagli occhi di ghiaccio a 95 anni mantiene intatti lo sguardo e la memoria che lo hanno reso protagonista di vicende straordinarie. Roberto Jucci ha attraversato tutte le trame e le rivoluzioni, quelle internazionali e quelle di casa nostra, uscendone sempre a testa alta: viene universalmente considerato «un servitore dello Stato, con una capacità unica nel portare a termine missioni impossibili». Come quando fu spedito da solo a Tripoli per stabilire un contatto con i colonnelli che avevano appena preso il potere. «A Gheddafi dissi che ero un ufficiale come lui, un po’ più anziano e con qualche esperienza in più». Fu l’inizio di un legame proseguito per decenni: ogni volta che c’è stato un problema con la Libia, i governi si sono rivolti a Jucci. E lui finalmente ha raccolto i suoi ricordi nel volume Rivelazioni (Porto Seguro editore): l’autoritratto dell’uomo che nei momenti più difficili ha sussurrato nell’orecchio di decine di presidenti la cosa giusta da fare.
È un cammino che parte dal 1943, alternando la carriera di militare e di agente segreto. A Trieste nel 1968 accoglie un generale cecoslovacco fuggito da Praga. Lo interroga, capisce che può essere prezioso e lo consegna alla Cia: Jan Sejna è stato la fonte più importante di tutte per l’intelligence statunitense. Gli americani lo portano in palmo di mano: gli chiedono persino aiuto per tentare di liberare gli ostaggi dell’ambasciata di Teheran. Di più. Jucci nel 1978 vola a Pechino per un’altra impresa top secret: «I cinesi volevano facessi da tramite per far conoscere agli Usa la volontà di staccarsi dall’orbita russa».
Il generale è cugino della moglie di Giulio Andreotti, ma questo non lede la sua fama di imparzialità: da Bettino Craxi a Giovanni Spadolini, tutti i capi di governo lo stimano. Ritrae i protagonisti della Prima Repubblica con aneddoti inediti. Come la visita di Sandro Pertini nella sua Savona: il neopresidente pretende di usare un volo di linea e alloggiare in una pensioncina. E allora, all’insaputa di Pertini, tutti i posti sull’aereo e tutte le camere vengono occupate da uomini e donne della polizia in borghese. «Il presidente fu soddisfatto ritenendo che la sua sicurezza fosse garantita dalla sua stessa popolarità: noi fummo felici della sua convinzione e tirai un sospiro di sollievo».
Un tema che ritorna spesso tra le pagine è il rapimento di Aldo Moro, a cui era molto legato. L’allora ministro Francesco Cossiga gli ordinò di formare un reparto di teste di cuoio nell’eventualità di localizzare la “prigione del popolo” e fare irruzione. Così Jucci raduna quaranta incursori del Col Moschin e li sottopone a esercitazioni serrate. Cossiga è ansioso di conoscerne la preparazione. «Per fargli constatare direttamente l’addestramento, di notte simulammo per strada il rapimento suo e della sua scorta. Si spaventò moltissimo e io temetti per un suo malore». Dopo l’epilogo di via Caetani Cossiga è sconvolto. «Prima di cominciare a conversare mi guardava per un quarto d’ora, senza proferire parola. Poi l’argomento era sempre lo stesso: l’uccisione di Moro, quello che lui aveva fatto per evitarlo, quello che lui avrebbe potuto ancora fare e non aveva fatto».
Una volta salito al Quirinale, Cossiga lo nomina comandante generale dei carabinieri. Sono anni di grandi riforme, ispirate a una visione innovativa e al rigore etico. Quando scopre che la Fiat ha aumentato il prezzo concordato per le nuove vetture dell’Arma, Jucci si oppone. Mette alla porta Cesare Romiti. Poi riceve Gianni Agnelli: «Mi disse che se non avessi accettato avrebbe interessato il governo. Gli risposi che ero convinto delle mie ragioni e avrei chiesto l’intervento della Corte dei Conti. Non rimasi certo nelle grazie del potente avvocato e a quei tempi era un rischio». Nonostante questo, il generale stabilisce una relazione profonda con Giovannino Agnelli, figlio di Umberto ed erede des ignato alla guida della Fiat che si arruola per la leva nei carabinieri. Gli domanda in quale regione, escluso il Piemonte, volesse andare. «Il giovane mi scrisse che desiderava una stazione disagiata, indicando Pantelleria ». Ancora più sorprendente il rapporto personale con Edoardo Agnelli, il figlio dell’Avvocato, conosciuto in occasione di un incidente stradale: «Era un ragazzo buono. Ci lasciammo abbracciandoci. Disse che sarebbe venuto spesso a trovarmi e così fu». Concluso il comando nel 1989, inizia una seconda vita. Romano Prodi lo vuole al vertice di una società dell’Iri. Poi Raul Gardini – «uno degli uomini più intelligenti che abbia conosciuto» – lo inserisce nel consiglio di amministrazione di Montedison. Dopo l’inizio di Tangentopoli, Gardini domanda al generale di convincere Prodi a diventare amministratore delegato di Montedison. C’è un pranzo a tre e l’offerta: «Prodi replicò che pur essendo tanto amici, non poteva accettare». Anche in questa fase, a Jucci affidano spesso pratiche delicatissime. Il presidente del Senato lo incarica “a titolo personale” di verificare lo stato economico di una clinica romana di don Verzè, il dominus del San Raffaele. Una sorta di ispezione nella sanità privata, con don Verzè che cerca subito di corromperlo: «Ebbi l’impressione che ci fossero più avvenenti signorine che infermiere…». Si rende conto di essere finito nel mezzo della lotta tra due gruppi politico- imprenditoriali: uno che sostiene il San Raffaele, l’altro il nascente Campus Bio-Medico dell’Opus Dei. Ogni mediazione è impossibile e don Verzè, sconfitto, si ritira dalla capitale.
Jucci ha visto il cuore di tenebra del potere e ne ha vissuto i momenti chiave. Nel 1996, alla caduta del governo Dini, l’allora numero uno delle Ferrovie Lorenzo Necci architetta il piano per un esecutivo, guidato da Antonio Maccanico e sostenuto da un nuovo movimento di centro. «Necci mi pregò di stare vicino a Maccanico per la scelta dei compagni di viaggio e l’organizzazione del nuovo partito ». Ma il disegno fallisce: «In occasione dell’incarico a Maccanico si potrebbero essere scontrate due potenti lobby massoniche internazionali, ed essendo uscita sconfitta quella di Necci, probabilmente lui doveva essere l’agnello sacrificale ». Pochi mesi dopo Necci verrà arrestato e uscirà dalla scena pubblica.
L’inizio del terzo millennio per Jucci significa una terza vita; questa volta in difesa dell’ambiente. Lo mandano in Sicilia a risanare le reti idriche e si trova davanti un mostro invincibile: un dedalo di mafia, politica, intrallazzi e arretratezza che spreca acqua e inghiotte fiumi di denaro pubblico. Altrettanto duro è l’incarico di bonificare il Sarno, il fiume più inquinato d’Europa. Si lancia alla carica contro industriali in Ferrari che lamentano povertà, camorristi, camarille e soprattutto contro la burocrazia che paralizza tutto. Non si arrende e nel 2011 porta a termine l’ultima missione. A 85 anni finalmente può riposarsi, anche se esponenti d’ogni partito continuano a bussare alla sua porta in cerca di consigli. Accade ancora oggi, nella massima discrezione. Se esistesse veramente il Grande Vecchio evocato dai complottisti, non potrebbe che somigliargli. «Sono sempre stato considerato un uomo ombra, che conosce tutto delle cose più oscure dello Stato. Ma sono tranquillo, perché ho operato per il solo bene del mio Paese».
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