Perché La politica è debole

Partiti e potentati

di Angelo Panebianco

 

Con Sergio Mattarella ancora al Quirinale e Mario Draghi ancora a Palazzo Chigi l’Italia ha guadagnato forse qualche mese di tregua. Prima che si trovi di nuovo a fare i conti con tutte le sue inadeguatezze, prima che i corvi ricomincino a volteggiare intorno ai palazzi gravemente lesionati, alle istituzioni fragili e malate della Repubblica.

Non ci si faccia ingannare. Succede quando la politica, fatta l’ennesima brutta figura di fronte alla opinione pubblica, non sa a che santo votarsi.

È allora che evoca improbabili riforme (l’elezione diretta del presidente della Repubblica è in questo momento la più gettonata). State certi che non se ne farà nulla. Tutti sanno che nell’Italia dei veti incrociati non esistono le condizioni politiche per introdurre innovazioni, non dico risolutive, ma nemmeno sensate. Per giunta, abbiamo prove in abbondanza del fatto che chiunque si azzardi a toccare la Costituzione «nata dalla Resistenza» finisce per bruciarsi le dita.

Al massimo, facilitata dallo sfaldamento definitivo di ciò che restava delle antiche coalizioni, verrà varata una legge elettorale proporzionale. Si tratterebbe di un approdo naturale dopo il definitivo fallimento dei tentativi di dare vita in Italia a una democrazia maggioritaria (nel periodo che inizia con la riforma elettorale dei primi anni Novanta e si conclude definitivamente con la bocciatura della riforma Renzi nel referendum del 2016). Se non che, anche ammesso che torni in vigore la proporzionale, chi crede che questo basterebbe a risolvere i guai della democrazia italiana si sbaglia di grosso. Ma davvero qualcuno pensa che basti cambiare le regole di voto per fare rinascere i partiti forti, strutturati, ben radicati nella società, espressioni di culture politiche in cui possano riconoscersi gli elettori, capaci di elaborare e proporre progetti di ampio respiro? Per inciso, chi pensa alla fase in cui avevamo partiti forti come a una specie di età dell’oro dimentica molte cose: dimentica l’estrema polarizzazione politica, la presenza di partiti anti-sistema , l’inamovibilità (quali che fossero le performance dei governi) di un partito sempre al potere per oltre un quarantennio. Dimentica che, pur con i suoi indubbi meriti, quel partito (la Democrazia cristiana) occupava lo Stato, anzi era lo Stato. E dimentica che quella Repubblica, figlia della Guerra fredda, finì lasciandoci addosso il peso di un enorme debito pubblico.

In ogni caso, quali che siano le smemoratezze dei nostalgici, ci vuole molta ingenuità per credere che i forti partiti di un tempo possano rinascere.

È proprio perché il vecchio sistema dei partiti si era inabissato per non ritornare mai più in superficie, che a partire dagli anni Novanta si tentò di creare una democrazia maggioritaria: l’assunto era che, finita la Repubblica dei partiti, si potesse mettere in sicurezza la democrazia solo dando forza alle istituzioni di governo (che è precisamente ciò che fanno, per lo più, le democrazie maggioritarie).

Il problema italiano è che ora convivono partiti deboli, istituzioni rappresentative fragili e governi la cui impotenza può essere occultata o attenuata per un breve periodo solo se a Palazzo Chigi siede una personalità molto forte e autorevole.

Che cosa richiederebbe una riforma del sistema politico che, quale che sia la forma istituzionale scelta, possa restituire fiducia nel futuro alla democrazia italiana? Richiederebbe ciò che oggi non è pensabile: una lotta senza quartiere fra una politica decisa a riprendersi le prerogative perdute e tutti quei centri, istituzionali e non, che proprio grazie al vuoto della politica partitica, alla debolezza dei partiti, hanno in tutti questi anni guadagnato spazi e potere e che non sono disposti a rinunciarvi. Poiché la politica non ammette vuoti, l’indebolimento dei partiti ha favorito l’allargamento dei margini di manovra e l’accrescimento del potere di istituzioni non rappresentative: dalle magistrature di ogni ordine e grado alla Pubblica amministrazione e, verosimilmente, a tanti enti che compongono il parastato. Le magistrature (ordinaria, amministrativa, costituzionale) non si sono assicurate solo l’indipendenza costituzionalmente garantita. Approfittando della debolezza dei partiti hanno invaso il campo altrui, hanno ridotto di molto il potere discrezionale della politica. Lo stesso vale per i rami alti della burocrazia. Si tratta di un insieme di potentati che, affievolitosi il controllo partitico-politico, sono diventati padroni del proprio destino, repubbliche indipendenti (ancorché non riconosciute ufficialmente). Quando non impongono direttamente le loro scelte hanno comunque un potere di veto sulle decisioni politiche.

Non fatevi ingannare dal fatto che l’emergenza ha dato, temporaneamente (molto temporaneamente) al governo grandi poteri. È solo l’eccezione che conferma la regola.

Non è oggi nelle istituzioni rappresentative che si concentrano le principali risorse che alimentano potere e influenza politica. Con la sola (certamente rilevantissima) eccezione del Quirinale.

È evidente che se la politica tornasse ad avere forza molti alti funzionari, magistrati, manager pubblici eccetera che oggi fanno il bello e il cattivo tempo, dovrebbero rimettersi in riga. Ma è un cane che si morde la coda: dato che la politica è debole quei centri di potere sono forti e poiché la politica è debole la loro forza è destinata a perpetuarsi.

Fino a quando? Fino a quando una crisi (per esempio internazionale) che un sistema debole come il nostro non sarà in grado di fronteggiare, innescherà cambiamenti profondi. Tanto nella Costituzione formale quanto in quella sostanziale, o materiale, della Repubblica. Speriamo, dopo quel giorno, di avere ancora una democrazia .

 

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