Triste passo d’addio…

LONDRA Dacci oggi il nostro Bolt quotidiano, e la nostra ultima frazione. La quarta per la Giamaica. È la 4×100 ma esiste solo il Lampo. Riceve il testimone da Blake, ha davanti Mitchell-Blake e Coleman, si spreme per riprenderli. È scritto: deve finire con un oro. Invece no, la vita ha in serbo più sorprese di un film. Qualche buona vecchia falcata doc, poi salta per aria. Un urlo: «Fuck!». Coscia sinistra, zoppica, si ferma, chiude la carriera in ginocchio. Era arrivato al Mondiale al limite, è andato in pezzi. Oro Gran Bretagna, argento Usa, bronzo Giappone. Che finale di romanzo. The end.

La prima pagina, nell’agosto 2008 a Pechino, fu una folgorazione. Sui blocchi, proveniente dall’inatteso record di due mesi prima a New York (9’’72), era acquattato un immenso cucciolo di giamaicano, disponibile a scherzare nel momento in cui tutti gli altri indossano la loro migliore faccia da poker.

Usain Bolt da Trelawny, parrocchia della contea di Cornwall, lo stesso Bolt che ora viene portato fuori dallo stadio quasi a braccia dai compagni, era lo show che ci avrebbe intrattenuti durante tre Olimpiadi e cinque Mondiali, fino a qui, soglia della meritata pensione. Per capire che il figlio di Jennifer e Wellesley, cresciuto nelle piantagioni di velocità dell’isola, non era uno sprinter banale, quel giorno a Pechino non erano servite doti divinatorie. A New York aveva ritoccato il cronometro al quinto cento metri da professionista, nel Nido fece di più e di meglio: 9’’69, rallentando visibilmente e correndo con la scarpa sinistra slacciata. Glielo facemmo notare, nella notte del trionfo, dei bocconcini di pollo fritto di McDonald’s e dell’impresa. Lampo, avevi le stringhe allentate. E lui: «Dici davvero? Figo!».

Ci ha fatto ridere, trasecolare, ammutolire. Ha riempito l’attesa nervosa dello sparo con facce buffe, lingue rosa, occhi rotondi e bianchissimi. Ha infilzato il post-gara con quella freccia scoccata verso il cielo che rimarrà un copyright. Ha corso da padrone, facendo ciò che voleva: è partito (quasi sempre) male, si è evoluto da homo erectus a sapiens nei centesimi di secondo della fase lanciata, il salto quantico dello sprint che ci lascia in eredità insieme a certi sorrisoni a pianoforte verso il traguardo, quel fine-vita nel quale ci si lascia andare alle confessioni, come sul letto di morte. Ci ha sedotto e ora ci abbandona con il colpo di scena: lui in infermeria, noi a casa. La musica è davvero finita, gli amici se ne vanno, che malinconica serata.

Miracoloso incrocio tra un animale da palcoscenico e l’atleta (im)perfetto, sintesi tra Fiorello e Carl Lewis, Bob Marley (è il Lampo il prodotto giamaicano d’esportazione di maggior successo dopo il re del reggae) e Mozart, Wodehouse e Dostoevsij. Delitto (degli sprint) e castigo (dei rivali), sempre sbellicandosi dalle risate. Bolt è stato tutto questo.

Enorme. Nella complessione fisica (195 cm per 94 kg), nei successi, nella personalità. L’unica grande vera rock star vivente dell’atletica (non se ne abbia a male Mo Farah, ieri argento nei 5000, che lascia la pista senza ennesima doppietta). Al di là dei gioielli che si porta nella nuova vita (8 ori olimpici anziché 9 per colpa del doping del maledetto Carter, 11 mondiali), Bolt è l’oggetto misterioso atterrato dal futuro per far apparire obsoleto, di colpo, tutto ciò che l’ha preceduto. Uomini e record. La compattezza esplosiva di Jesse Owens, la potenza effemminata di Carl Lewis (che grazie alla versatilità nel lungo gli rimane davanti negli ori olimpici), il baricentro basso di Maurice Greene e le biografie degli altri piccoli eroi dello sprint mondiale sono pagine incenerite dalla luce abbacinante del Migliore, il fenomeno che con un corpaccione da cestista di Nba ha saputo correre i 100 in 9’’58 e i 200 in 19’’19 (entrambi i primati sono patrimonio dell’umanità e del Mondiale 2009 di Berlino), tempi assurdi destinati a durare. E durare. E durare. E durare.

Volando come una cometa sopra l’atletica, Bolt ha solcato il tartan per un decennio che già rimpiangiamo avendolo appena commemorato in questo Mondiale spoon river che meriterebbe il sottofondo dei Beatles. Let it be, lascia che sia.

Lascia che il bronzo dei 100 e l’infortunato celebre della staffetta, a otto giorni dal 31esimo compleanno, si ritiri. Cosa potevamo chiedergli di più? Si è persino stirato, per noi. Bye, Lampo. Sei stato bello, unico, raro, caldo. Ci lasci un carico di elettricità per il lungo inverno. Peccato per il finale, d’ora in poi lo sprint sarà terra di tutti e di nessuno. Americani, caraibici, marziani verdi e venusiani con tre gambe. Dopo aver visto te in azione, e infine per terra, nulla potrà più stupirci.

Gaia Piccardi

 

  • Domenica 13 Agosto, 2017
  • CORRIERE DELLA SERA