NONVIOLENZA

Alle ingiustizie, al razzismo, alle guerre c’è solo un modo di rispondere, assicura la filosofa americana: la resistenza pacifica. Praticare la disobbedienza civile. E aprire vie nuove all’uguaglianza “Chi agisce violentemente non va solo contro qualcosa o qualcuno, ma spezza i legami sociali che ci sostengono. Pregiudica una vita vivibile” “Giustizia e libertà non si generano più nella politica elettorale. Sono i movimenti di massa a usare lo spazio pubblico per smantellare precarietà e discriminazioni”.
Donatella Di Cesare
Judith Butler è tra le filosofe più note nel panorama contemporaneo. Ha inaugurato il dibattito sull’identità di genere. Ma a lei si devono anche importanti contributi etici e politici incentrati in particolare sui temi del potere e della violenza.
Il suo libro più recente, appena pubblicato da Nottetempo, si intitola “La forza della nonviolenza. Un vincolo etico-politico”.
Nel suo nuovo libro ha scritto che «viviamo in un tempo di grandi atrocità e di morti insensate». A questa giusta constatazione si accompagna la denuncia di quella violenza perpetrata dallo Stato che esercita il proprio potere discriminando le “persone non bianche” e in genere criminalizzando il dissenso. Come rispondere? In modo molto coraggioso lei decostruisce il pregiudizio della sinistra sulla nonviolenza. E mostra quanto illusoria sia l’autodifesa: perché si presuppone che ci sia un sé integro (integralista), trasparente, identico a sé. Mentre sappiamo bene quanto il sé sia già sempre implicato nelle vite altrui – e le vite altrui nel sé. Perciò la leva del suo discorso sulla nonviolenza è la critica all’etica egologica. Ce ne vuole parlare?
«In molti dibattiti la nonviolenza viene trattata come una questione di morale individuale o una posizione politica irrealistica e impraticabile. Se consideriamo la base sia etica che politica della nonviolenza, dobbiamo riconoscere che richiede una critica dell’individualismo e rifiuta la versione della realtà imposta dalla “realpolitik”. Quando qualcuno di noi agisce in modo violento, non va solo contro gli oggetti, gli altri, le istituzioni e la natura, ma spezza anche i legami sociali che ci sostengono. Certo, ci sono istituzioni da cui veniamo sfruttati e danneggiati, nonché quelle che vanno davvero smantellate. La nonviolenza può coinvolgere tutti i tipi di strategie di “smantellamento”, compresi lo sciopero, il boicottaggio e il “deplatforming”. Tuttavia, anche una violenza considerata strumentale porta maggiore violenza nel mondo, lo rende un luogo ancora più violento. E, inoltre, la violenza che attacca le nostre relazioni sociali finisce per essere un attacco contro noi stessi perché pregiudica le condizioni di una vita vivibile. Essere nonviolenti non vuol dire dimostrare la nostra virtù di individui, ma piuttosto riconoscere che siamo definiti dalle nostre relazioni sociali con altri esseri viventi. Vuol dire insomma comprendere che siamo essere relazionali e non appunto egologici».
Da tempo è crollato il mito del Palazzo d’inverno. La violenza finisce appunto per servirsi di chi pretende di usarla come semplice strumento. «Un atto violento contribuisce alla costruzione di un mondo più violento», scrive. La nonviolenza (senza trattino!) non è quindi una postura morale. Piuttosto è una politica che dovrebbe arrestare la distruzione sistemica. Spesso parla anche di “resistenza”. È un sinonimo? Chi resiste non si rassegna, aumenta la vigilanza, apre vie traverse…. Eppure mi sembra riduttivo rispetto a quello che intende.
«Se pensiamo alla nonviolenza in modo nuovo, non più solo come una reazione fisica, allora potremmo cominciare a vedere che intere istituzioni sono violente e che dobbiamo lottare per modificarle o abolirle. Il movimento per l’abolizione delle carceri, ad esempio, ne denuncia la violenza. Le carceri operano come se fossero legittimate a punire chi è dentro. Ma la violenza che esercitano non differisce da quella che pretendono di punire o contenere. Questo vale tanto più per i centri di detenzione in cui i migranti sono detenuti in condizioni indicibili. La politica migratoria andrebbe ripensata e concepita come una rete di distribuzione di generi alimentari. A partire da qui dovremmo allora chiederci che cosa vuol dire ristrutturare queste istituzioni e queste economie in modo nonviolento. La resistenza rimane per me un termine importante perché un aspetto della nonviolenza è rifiutarsi di riprodurre la violenza subita da un singolo o da un gruppo in quella che diventerebbe una escalation. Vedo la nonviolenza nel suo tratto aggressivo e creativo, ma la vedo anche come una forma di resistenza. Tuttavia è vero che per me “resistenza” non è l’unico nome per questa politica…».
Lei fa riferimento a Gandhi. A me pare che ci sia oggi una grande novità nello spazio pubblico ed è costituita da quelli che chiamo “nuovi disobbedienti”. Penso a Mimmo Lucano, a Carola Rackete. Non si tratta, però, della disobbedienza civile tradizionale, che in fondo non rompe con lo Stato di diritto. I “nuovi disobbedienti” si muovono al limite dello spazio pubblico, già lo varcano, scuotono l’architettura politica, destabilizzano l’ordine statocentrico. Non è un caso che soccorrano i migranti… Perciò vengono criminalizzati.
«Mi sembrano molto interessanti questi movimenti che ricorrono già al digitale e tentano di usare lo spazio pubblico per smantellare le politiche che producono precarietà, razzismo, violenza contro le donne e Lgtb (lesbiche, gay, bisessuali, transgender). Ed è particolarmente interessante vederne ora le azioni in tempo di pandemia, ad esempio le manifestazioni di Black Lives Matter che seguono i protocolli di sicurezza e sono prevalentemente nonviolente. Le nuove idee di uguaglianza, libertà e giustizia non si generano ormai più nella politica elettorale, ma nei movimenti di massa. Quando la legge diventa ingiusta – come nel caso dell’Europa che criminalizza chi cerca di salvare le vite dei migranti – allora è giusto diventare criminali. O forse dovremmo dire “criminali” tra virgolette, dato che è appunto la legge stessa ad essere criminale. Allo stesso modo la resistenza, durante il fascismo, ha dovuto combattere contro un regime legale, ma violento e razzista».
In questo libro rilancia una critica, che aveva già in parte delineato in precedenza, al concetto di “nuda vita”. Sono molto d’accordo con la sua critica. Se diciamo che i migranti ammassati nei lager lungo i confini dell’Europa sono “nuda vita”, rischiamo di relegarli in un abisso apolitico, in un’indigenza esistenziale da cui sarebbe difficile risalire. Questa china interpretativa essenzializza insomma la nuda vita che, isolata nel suo mutismo, sopraffatta nella sua sorte tragica, non potrebbe opporre nessuna resistenza. Per lei gli esclusi restano pur sempre in una relazione…
«Dovremmo anzitutto interrogarci sulla prospettiva in cui viene considerata la “nuda vita”. Ritengo che dal punto di vista assunto da Agamben, quello della sovranità statuale, coloro che sono “nuda vita” sono stati privati di tutti i diritti legali, persino della condizione di soggetto. La legge che dovrebbe proteggerli viene ritirata o sospesa per decisione sovrana. È inutile dire che sono ben consapevole di queste esclusioni dalla protezione legale e ovviamente le critico. E inoltre non ha senso, certo, dipendere dal potere sovrano là dove è possibile ritrarsi ed evitare così che l’essere umano venga ancora esposto alla violenza e al degrado. Il problema è che l’intera scena viene disegnata come se ci fosse la legge da una parte e la vita dall’altra. Sennonché coloro che sono privati dello stato giuridico da vari poteri sovrani interconnessi possono pur sempre far parte di reti di solidarietà, possono agire politicamente e trovare modi per difendere la propria mobilità. Essere abbandonati dalle forme sovrane del potere non significa che non ci siano altre forme di risposta. Così un gruppo può essere abbandonato, ma proprio in quanto tale può organizzarsi. Non vedo contraddizione».
Ni Una Menos vuol dire perdite che non avremmo dovuto accettare, donne non degne di lutto. Come forse saprà, in Italia le donne – mi riferisco davvero a tutte – sono emarginate nello spazio pubblico; se compaiono, pagano il prezzo dell’insulto sessista. E non per caso il femminicidio è evento quasi quotidiano, per di più narrato in termini sensazionalistici o nella forma dell’epilogo ineluttabile. Dopo decenni non si riesce ad articolare un’altra narrazione e non si riesce ad avere voce. Molte sono affrante.
«Condivido lo stesso sconforto. E riesco a stento a leggere le statistiche dei femminicidi nei diversi Paesi, compresa l’America. Abbiamo un presidente che sarebbe lieto di negare l’esistenza di questo crimine. La lezione che ho imparato dalle femministe latinoamericane è che uccidere una donna, una trans, un gay o una lesbica deve essere considerato un crimine a sé. Per troppa gente queste morti sono un mistero, o l’esito di passioni e incontri privati – ma non sono intese come forme sistematiche di violenza che devono essere fermate a livello politico, istituzionale e soprattutto nella pratica dei movimenti. Molto dipende dal modo in cui la storia del femminicidio viene narrata. Alcuni giornali forniscono versioni sensazionalistiche e perciò il tema viene trascurato. La narrazione della singola vita di una donna (e includo ovviamente quella delle trans) dovrebbe essere presentata insieme a un’analisi che, oltre a dar conto del femminicidio, consideri tutti gli alibi che lo avallano. Il movimento Ni Una Menos è riuscito a riunire milioni di persone che non solo si oppongono alla violenza sulle donne, ma chiedono anche parità di salario, assistenza sanitaria e forme più radicali di libertà sociale e politica. È un movimento basato sulla rabbia e sulla gioia e a ciò deve il potere straordinario che ha in America latina e in Europa».
La pandemia è a mio avviso un evento epocale. Fino a ieri potevamo consideraci onnipotenti tra le macerie, i primi e gli unici anche nel primato della distruzione. Questo primato ci è stato tolto da una potenza superiore alla nostra e più distruttiva. Che sia poi un virus, un’infima porzione di materia organizzata, rende l’evento ancora più traumatico. Anche la più piccola creatura può detronizzarci, destituirci, scalzarci. Cambierà, secondo lei, il nostro modo di vivere e percepire la vulnerabilità?
«Da un canto il virus ci espone, ci fa sentire creature precarie. In un certo modo non fa differenza fra ricchi e poveri, perché siamo comunque sempre soggetti al suo effetto letale. D’altro canto, però, vediamo che i Paesi che hanno adottato poche misure sono quelli i cui ospedali sono a corto di personale e sono scarsamente attrezzati. La differenza tra chi vive e chi muore dipende allora dalla disuguaglianza sociale, dal modo in cui i servizi pubblici sono stati demoliti dal neoliberismo, ma anche dai sistemi di discriminazione razziale. Negli Stati Uniti le comunità di colore soffrono di malattie gravi, in certi casi mortali, proprio perché le istituzioni sanitarie sono state già da tempo sottofinanziate – e questo è anche una forma di discriminazione. Il virus è quindi distruttivo e ci fa sentire vulnerabili. Ma ci spinge a guardare le forme brutali di disuguaglianza sociale che hanno reso superflue tante vite. Ogni vita, nel suo potenziale di dolore, ha significato qui e ora. Non abbiamo ancora imparato a realizzare l’idea dell’uguaglianza radicale di tutte le vite, dell’uguale valore. Per fare questo dovremmo prima chiederci chi sono coloro le cui vite non sono considerate importanti, chi sono coloro le cui vite non sono state ritenute degne di essere preservate. Per molte persone, specialmente per quelle che sono escluse, umiliate, abbandonate da governi nazionalisti e razzisti, il compito di sopravvivere è purtroppo quotidiano e se ne fanno carico senza quell’aiuto istituzionale che dovrebbe essere garantito a tutti».
l’Espresso – espresso.repubblica.it