Con la sua consolidata tecnica ermeneutica, che coincide con un ben preciso passo di scrittura, Massimo Cacciari in Paradiso e naufragio (Einaudi, pp. 128, e 13,00) si inserisce tagliente tra le pagine dell’Uomo senza qualità di Robert Musil, con la consapevolezza di doversi impegnare in una interpretazione che non può né deve poggiare sulla ricostruzione del contesto e tanto meno sui pregressi del testo interpretato, ma deve piuttosto dedicarsi alla «inseparabilità degli assolutamente distinti, l’affinità che compone ciò che appare incommensurabile, privo di qualsiasi metro comune». La vita, insomma, come simbolo che però si sa non essere narrabile.

Qualunque testo che somigli a un romanzo, dalla fine dell’Ottocento in poi, e particolarmente in area mitteleuropea, procede nella consapevolezza di una impossibilità di raccontare ciò che desidererebbe. Premessa che vale in particolare per l’opera di Musil anche perché, il nucleo dell’inenarrabilità troneggia nel tempo come un problema filosofico. Cacciari connette Ulrich, il protagonista – né attore né agito bensì visitatore attento e interrogante degli accadimenti – al Törless cui lo accomuna «quell’impossibile che è il dar-forma alla decisione» ovvero, l’amara consapevolezza che l’Io (vivente e potenzialmente narrante) non riesce a giustificare né con l’azione né con il pensiero il nucleo di quel che potrebbe diventare, prima di ogni altro progetto, esperienza vissuta.

Lo potrebbe se il libero arbitrio, e la responsabilità che ne discende, esistessero; ma Ulrich, specialmente nel primo volume dell’opera, approda al massimo all’elenco statistico del probabile, all’enumerazione di quel che accade e che, proprio per tale impossibilità di giustificazione ulteriore, resta inenarrabile e, anzi, ancora prima, pressoché non vissuto. Anche se «nulla esiste sempre, e tuttavia per lo più sì» Ulrich non rinuncia a un qualche flirt con il senso, con il significato, al di là di un’apparenza-sostanza che si mostra come insuperabile. Musil intende restare fedele e concedere spazio oltre ogni dubbio al Versuch, tentativo, saggio, parente abbastanza stretto di Versuchung, tentazione. Nel romanzo, forma e decisione sono due facce di un’unica medaglia e, nella interpretazione di Cacciari, «l’uomo senza qualità è precisamente colui che ricerca insieme forma e decisione, che vuole conferire forma al flusso dei casi e decidersi a un tempo di volerne spezzare il continuum esprimendo la propria irriducibile interiorità».

Se quella individuata da Cacciari è la cifra di Ulrich (ovviamente non definitiva, dato il personaggio e data la posizione teorica di Musil), a partire da quella traccia diventa possibile avvicinare le figure che si alternano nel romanzo. A proposito del criminale Moosbrugger, emerge l’interrogativo se sia «giusto» giudicarlo colpevole, proprio in «omaggio» a quello che Cacciari individua come il convitato di pietra di tutto il romanzo, Nietzsche. Per la verità, l’immagine della pietra non tiene, perché la «consistenza» dell’essere per Nietzsche coincide con l’affermazione del divenire e del carattere dionisiaco della trasformazione, vale a dire con l’esaltazione di quel fluire che tutto trascina con sé e la cui apparente insensatezza il super o oltre uomo dovrebbe sapere affrontare: un gorgo, essere afferrati dal quale non sarebbe debolezza ma forza estrema.

Esaltati, esasperati, e in alcuni tratti anche esasperanti, sono infatti i personaggi: Clarissa, la più sinceramente nietzscheana, colei che sarebbe pronta al «sacrificio» di sé, se solo potesse; Arheim, il calcolatore dell’anima, colui che (a differenza del Conte Leinsdorf e della sua volontà di conservazione ad ogni costo) alla ragionevolezza spiritualizzata affida il compito di un’educazione progettuale dell’anima come forza vitale; Meingast, che a quella medesima forza prorompente contrappone senz’altro lo spirito in modo che non possa giammai risolversi in composizione simbolica (il simbolo non lo si può raccontare e dunque neppure vivere) risolvendosi invece in una esclusione per giunta irata. E poi Gerda, Sepp, Bonadea e Diotima, tutti ricompresi in un orizzonte che non è né temporale né tantomeno spaziale, bensì di progressiva quanto prevista insignificanza.

Secondo Cacciari, «la paradossalità dell’impresa musiliana consiste …nel guadagnare la purezza del linguaggio mistico attraverso l’avventura saggistica»; «paradosso», come si sa, è parola che a Cacciari piace forse più di «crisi», anche se esse si toccano significativamente e per un lungo tratto. Paradosso e crisi, entrambi esiti aporistici del romanzo di Musil si danno convegno nella Mitteleuropa ormai orfana della Romantik, del sogno della narrazione dell’esistenza come esposizione di un senso, certo uno tra i tanti possibili, almeno come direzione, senza che questo significhi immediatamente una mèta.