di Francesco Giavazzi
Carlo Azeglio Ciampi, premier fra il 1993 e il 1994 e poi presidente della Repubblica, aveva un tratto affabile, gentile, uno sguardo limpido, di rara mitezza, ma fermo, che denotava una persona d’acciaio. Necessaria in un Paese che fa tanta fatica a portare fino in fondo le riforme, che approva decine di leggi, ma poi si scorda di scriverne i decreti attuativi, lasciandole quindi lettera morta. Per Ciampi era impensabile che le scadenze venissero anche solo rimandate, gli impegni presi non rispettati. Controllava obiettivi e risultati del suo governo usando uno strumento semplice: un grande foglio a quadretti sul quale tracciava lungo le colonne le settimane dell’anno e lungo le righe i nomi dei suoi collaboratori. In ciascuna casella inseriva un obiettivo condiviso con la persona che ne era responsabile: funzionari dello Stato, ma anche ministri del suo governo. A scadenze regolari li convocava e si informava sui risultati raggiunti. Era impensabile presentarsi davanti a lui impreparati o, peggio ancora, con una scadenza non rispettata. Nel breve arco del suo governo, avviò uno dei più grandi programmi di privatizzazione finora attuati in Europa.
L’ 8 aprile scorso, a un mese dall’inizio del lockdown, il governo Conte approvò diverse misure a sostegno della liquidità delle imprese. «Non ricordo nella storia repubblicana un intervento così poderoso, una bocca di fuoco», commentò il premier. Fra le misure varate un prestito di 25.000 euro (in seguito elevato a 30.000) a tutte le piccole e medie imprese, che avrebbe dovuto essere erogato dalle banche con la garanzia dello Stato. Un provvedimento evidentemente scritto male: ad esempio non prevedeva una manleva per i direttori di filiale che devono erogare quei prestiti e quindi non chiariva quali fossero i rischi che essi corrono. Per chiarirlo l’Abi, l’associazione delle banche italiane, chiese lumi al governo e il 2 maggio, un mese dopo il varo del decreto, scrisse una circolare in cui forniva «diversi chiarimenti». Il 18 maggio, sei settimane dopo l’approvazione del decreto, in Emilia-Romagna, una regione le cui aziende e le cui banche non sono certo fra le più inefficienti del Paese, su un campione di 2.700 imprese analizzato da Confartigianato, l’80% aveva chiesto il prestito ma solo il 12% lo aveva ottenuto. Il 7 per cento sconfortate avevano ritirato la domanda. Storie analoghe accadono per l’erogazione della cassa integrazione che ancora non arriva, soprattutto, ma non solo, ai lavoratori che devono accedere alla cassa in deroga.
Un modo di governare alquanto diverso da quello di Ciampi. La sua priorità era curare tempi e dettagli per poter sempre rendere conto ai cittadini del proprio operato. Non mi pare sia la priorità di questo governo. Anziché curare tempi e dettagli il premier lancia ogni giorno nuovi obiettivi, troppo lontani nel tempo per costituire un calendario verificabile dell’azione di governo. Il ponte sullo Stretto lo voleva anche Berlusconi 20 anni fa. Se in questi mesi abbiamo evitato la crisi finanziaria e la fuga dei capitali è solo grazie all’Europa: al fondo proposto dalla Commissione europea e agli interventi straordinari della Bce.
Ora il premier propone di dedicare tre giorni a una riflessione sul che fare. Non ce ne sarebbe bisogno. Basterebbe l’elenco fatto nell’ultima conferenza stampa per preoccuparsi: dall’Alta velocità alle misure a favore della ricapitalizzazione delle imprese. E la task force di Vittorio Colao ha già ben ricordato cosa fare. La verità è che i problemi e gli interventi necessari all’Italia sono forse la cosa più nota a chiunque. Sarebbe meglio dedicare più tempo ad eliminare le strettoie che non consentono ai soldi che già ci sono di arrivare ai lavoratori e alle imprese. O ad eliminare gli ostacoli che fermano l’avvio di opere pubbliche già finanziate. Non abbiamo bisogno di altri libri dei sogni con l’Italia digitale in cima alla lista. Ha osservato il professor Salvatore Modica, che da 37 anni dedica la vita all’università di Palermo, che il 12,3 per cento dei ragazzi tra i 6 e i 17 anni (dati Istat) non ha né un computer, né un tablet a casa. E la metà di chi non ne ha si trova nel Mezzogiorno, dove il problema riguarda quasi il 20 per cento dei ragazzi, mentre il 57 per cento di chi ne possiede uno lo deve condividere con altri. Abbiamo bisogno ancora di riflettere su cosa c’è da fare?