Nino Migliori

di Helmut Failoni

 

Siamo nella prima periferia di una Bologna assolata e deserta, al civico 6 di via Elio Bernardi, nello studio di Nino Migliori, uno dei grandi protagonisti della fotografia. Ci viene incontro con un disarmante sorriso di benvenuto, oltre che con l’inseparabile coppola ben calcata in testa. L’occasione della visita è legata alla mostra di Ritratti alla luce di un fiammifero, fino a sabato 31 luglio al Museo Civico Archeologico di Bologna. Ecco l’incontro con una persona speciale, che ha cominciato a scattare fotografie nel 1948, cercando sempre di mantenere lo sguardo innocente, curioso e onnivoro di un bambino.

Maestro, lei ha cominciato nel periodo pioneristico dei circoli fotografici e a Bologna aveva sede uno dei più antichi.

«La fotografia era un puro divertimento, un discorso amatoriale, ma si facevano però anche mostre ovunque, Spagna, Turchia, Grecia, Stati Uniti. È anche il periodo del mio Tuffatore (del 1951, ndr)».

Uno scatto storico.

«Un colpo di fortuna. Riprendere il soggetto perfettamente centrato, con due millimetri di spazio a destra e sinistra, usando una macchina fotografica 6×6, beh, se non è stata fortuna quella…».

Se lo ricorda quel giorno?

«Ero andato al porto di Rimini perché mi avevano detto che c’erano dei ragazzi bravi a tuffarsi e che dalle 10 fino a mezzogiorno li avrei trovati. Andai dal più bravo e gli chiesi se potevo fotografarlo».

Quante scatti realizzò?

«Due foto in tutta la giornata. Allora si doveva risparmiare, perché i negativi costavano. Non era come adesso che faccio cento fotografie per fare un ritratto».

Per quelli al fiammifero invece?

«Per cogliere l’attimo giusto, ne faccio tanti, uno dopo l’altro, così poi scelgo».

Scegliere implica un lavoro più lungo, di riflessione, approfondimento, lontano dalla presunta «verità» dello scatto unico.

«Scegliere fra quello che si ha a disposizione è un modo di esprimersi. Con una foto scelgo quello che voglio dire attraverso quello che ho fatto».

Cos’è in ultima analisi la fotografia?

«È una forma di scrittura, non è arte. È l’espressione di un pensiero».

Le foto al fiammifero o quelle al lume di candela nascono da una sua fascinazione per il buio?

«Prevalentemente è un discorso di ritorno alle origini. Quando non esisteva la luce elettrica si usavano le candele».

Come lavora con il fiammifero?

«Rispetto al soggetto da ritrarre, sposto il fiammifero più avanti, più indietro, più in basso, più in alto, a seconda di quello che voglio mostrare della persona. Se il soggetto mi è simpatico o mi è antipatico, lo esprimo con lo scatto. È un modo di scrivere senza dire».

La fotografia l’ha anche deformata, alterata, con l’utilizzo di tecniche sperimentali che lei stesso ha ideato. Sembra che con il fiammifero lei abbia fatto un percorso artistico che, dopo aver attraversato le avanguardie, chiude un cerchio che l’ha portata alla ricerca dell’essenza, dell’anima, della purezza dell’immagine.

«Ho quasi 95 anni e sono 80 anni che uso la macchina fotografica. Ho un concetto della fotografia diverso. Una volta, e parlo di tanto tempo fa, ai concorsi si potevano mandare quattro fotografie. Io mi toglievo ogni volta una possibilità perché ne mandavo tre legate al genere che andava in quel momento e una di pura sperimentazione. Che veniva regolarmente eliminata. Ma io insistevo».

Perché?

«Volevo dimostrare a me stesso che la ricerca che stavo facendo non interessava a nessuno. Interessava però a me. La ricerca è una libertà alla quale non ho mai rinunciato. Ho sempre preferito fare e basta piuttosto che fare per ottenere. E poi alla mia età… Arriverò ai 100? Magari come Gillo Dorfles, che è arrivato a 107».

Se continua così, con le mostre e tutte le altre attività che segue…

«Sento di essere alla fine, sto bene, ma dormo troppo poco».

Quanto?

«Due ore per notte. Non riesco a dormire, mi alzo, faccio lavori notturni, lavoro alla televisione facendo foto alla schermo. Quando ci mettiamo a letto con mia moglie dopo due minuti comincio a rigirarmi da una e dall’altra, allora le do un bacino di buonanotte e vado in un’altra stanza per farla dormire tranquilla».

Si ricorda la prima foto che ha fatto?

«Era banale ma ci vinsi un concorso. Con i soldi del premio comprai la mia prima macchina fotografica seria».

Che apparecchio era?

«Comprai una 6×6, non Rollei perché costava troppo. Scelsi una Ikoflex. Mi interessava l’obbiettivo Tessar Zeiss Jena».

Per la stampa come faceva?

«Sempre fatta io. Tengo troppo alla qualità della stampa. Agli inizi avevo uno stanzino di 2 metri per uno. E due bacinelle».

Dopo quanto tempo si è reso conto di potersi mantenere con la fotografia?

«Non mi sono mai mantenuto con la fotografia. Ho sempre fatto altri lavori, perché quando fotografavo volevo essere libero di fare quello che volevo senza scendere a compromessi».

Quali altri lavori ha fatto?

«Ho cominciato facendo l’impiegato in una piccola ma importantissima azienda di Bologna, Pelletteria Felsinea, a conduzione familiare: due fratelli e quattro dipendenti. Entrai come fattorino».

Quanti anni aveva?

«Ero un ragazzino. Ne uscii come direttore dopo qualche anno. Volevano darmi l’azienda, ma non mi interessava. Andai a lavorare alla Fabbri perché il direttore era anche il presidente del Circolo fotografico bolognese e mi stimava. Poi divenni direttore generale di una distilleria, poi di un’altra ancora. Girai l’Italia».

E la macchina fotografica?

«Pronta nel bagagliaio dell’auto. Lì iniziai a pensare alla fotografia come scrittura. Non un’unica bella fotografia ma una serie che raccontasse una storia».

Alcune sue serie, legate al neorealismo, sono state influenzate anche dal cinema di quegli anni?

«Non ho mai voluto lavorare con il cinema. Linguaggi per me troppo diversi».

L’arte contemporanea invece, che lei ha frequentato molto, ha avuto un ruolo importante per la sua professione?

«Nella mia vita ho conosciuto centinaia di pittori, molti sono diventati amici. Mi interessava capire il motivo che li spingeva a fare arte. A Bologna divenni amico di Giorgio Morandi, che mi trattava da figlio. Mi regalò un libro di Cartier-Bresson: non sapevo neanche chi fosse. A Morandi, nel tempo, feci un lungo servizio fotografico. Mi disse: “Lasciami qui i rullini che li faccio sviluppare io”. Ero imbarazzato ma non avevo una lira. Capitò che non ci vedemmo e poi lui morì. Chissà che fine hanno fatto quei rullini».

Poi ci sono stati i suoi anni a Venezia.

«Ero molto amico di Emilio Vedova e di Paolo Tancredi. Dormivo nello studio di Vedova in un sacco a pelo o su un divanetto a tre posti tutto rannicchiato a casa di Tancredi. Una notte alla settimana mi dava la possibilità di stare due giorni a Venezia, poi si andava sempre da Peggy (Guggenheim, ndr). Quando ricevette il suo primo Pollock, ci invitò a casa e ci ubriacammo in allegria noi quattro».

Quanti ricordi.

«Tantissimi. Era bellissima Venezia. Giravamo sempre a piedi, facevamo chilometri io e Gianni (Berengo Gardin, ndr) a chiacchierare fino alle due di notte. Io lo accompagnavo a casa e poi lui mi riaccompagnava in albergo. E poi io nuovamente a lui. Avanti e indietro».

La sua più grande delusione professionale?

«È una domanda importante, però non so rispondere».

È geloso dei suoi lavori?

«Assolutamente no».

Cosa si aspetta ancora dalla vita?

«Nulla. Ho troppi impegni, a volte vorrei scappare via».

Per fare cosa?

«Per ritrovare il tempo, per fare ricerca. Ci sono ancora tante cose da fare».

Ci dica quali.

«Me ne vengono in mente almeno una ventina al giorno».

Non hai mai pensato a un progetto fotografico con il cellulare? C’è chi ci ha girato pure dei film.

«Non mi interessa la macchina, nel senso di mezzo. Il cellulare va benissimo, ma penso a quando due persone riusciranno a comunicare in tempo reale fra di loro usando sensori applicati alle tempie. E non credo che siamo poi così lontani dal riuscirci. Spero di poterlo vedere».

 

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