Nella fabbrica dei robot. “Ecco i gioielli italiani”.

Christian Cipriani, neodirettore dell’Istituto specializzato in androidi  del Sant’Anna di Pisa: “All’avanguardia, occasione da non perdere”
Non ha l’aspetto né i modi della Silicon Valley. Anzi: sfoggia un forte accento lucchese e vive a Pisa. Eppure, se si guarda al futuro della robotica, bisogna pensare a persone come lui. Christian Cipriani, di appena trentasette anni, è infatti il nuovo direttore dell’Istituto di BioRobotica della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Siede da pochi giorni su una poltrona importante, la stessa che è stata a lungo di Paolo Dario, nome di peso quando si parla di androidi. “Sono solo un po’ più giovane rispetto ai miei colleghi”, sottolinea Cipriani. Poi però ammette: “Ok, sono più giovane in effetti. Ma non è colpa mia”.

Come è arrivato a dirigere l’Istituto di BioRobotica?
“Mi hanno eletto i miei colleghi. E i candidati papabili non erano poi così tanti”.

Ha sviluppato una mano robotica, ma fino al 2013 era “solo” un ricercatore.
“Già. E me ne stavo andando dall’Italia. Avevo avuto un’altra offerta di lavoro. A quel punto il Sant’Anna ha deciso di farmi un’offerta per restare”.

Crede sul serio che vedremo a breve i robot per le strade?
“Sono già nelle strade. Meglio: nelle nostre fabbriche. Del resto nella robotica industriale siamo ai vertici. Ma francamente non penso che in Italia le persone siano pronte ad aprire le porte agli androidi come invece sta accadendo in Giappone”.

Eppure, lo ha detto lei: è un settore nel quale facciamo scuola.
“E dovremmo puntarci ancora di più. È la chiave per tenere elevata la qualità della nostra manifattura. Se perdiamo questo treno non lo recuperiamo più”.

C’è chi pensa invece che potrebbero distruggere la nostra società e sopprimere molti posti di lavoro.
“Lo so, lo so… Ma è sempre successo ad ogni grande rivoluzione industriale. E poi, che vuol fare? Spegnere tutto e sperare che il futuro di qui non passi? Io sono della stessa idea del mio predecessore, Paolo Dario: ci siamo lasciati travolgere dal digitale divenendo consumatori passivi; abbiamo lasciato che tutte le industrie europee che producevano dispositivi mobili scomparissero una dopo l’altra. Nella robotica invece possiamo dire la nostra perché lo stiamo già facendo. E poi l’automazione creerà nuove forme di occupazione, elevando la manodopera a manodopera di eccellenza che è un nostro punto forte. A meno che non si voglia dire che quel che serve da noi è la produzione di basso livello su larga scala e tanti impieghi in lavori ripetitivi di scarso profilo”.

L’Europa, con il piano di investimenti Horizon 2020, sulla robotica ha investito. La visione è a lungo termine. In Italia?
“Ecco: fortuna che siamo in Europa. Altrimenti non potremmo muovere un passo. Qui in Italia non c’è visione perché sulla ricerca si investe poco. E quando devi sopravvivere non pensi certo a cosa dovrai fare tra 20 anni”.

La sua visione a lungo termine?
“Credo nei robot riabilitativi e in quelli “soft” ispirati al mondo animale. I primi vengono già utilizzati negli ospedali e nei centri di ricerca, i secondi sono una frontiera promettente. Siamo stati noi a Pisa ad immaginarli, imitando il mondo animale per avere un impatto sull’ambiente ridotto. Tanto che abbiamo appena aperto un centro a Livorno per creare robot marini”.

Quanti siete all’Istituto di BioRobotica?
“Circa 250 e fra i nostri dottorandi il 30 per cento sono stranieri”.

L’immigrazione è un’altra cosa che spaventa. Più dei robot.
“Be’ se non ci fossero stranieri significherebbe che non stiamo facendo un buon lavorio. Il fatto che vogliano venire qui è un gran bel segnale”.

Si parla spesso di una “robot valley italiana”. Esiste davvero?
“No, nulla che si possa paragonare alla Silicon Valley in California. Ma esistono aziende e istituti di ricerca di alto profilo che collaborano come facciamo noi ad esempio con l’Istituto italiano di tecnologia (Iit). Certo, se la politica avesse un progetto ad ampio respiro certe sinergie sarebbero più facili”.

Lei ha un figlio di sei mesi. Cosa gli insegnerà per riuscire a cavarsela nell’era dei robot?
“Il metodo scientifico, da quello non si prescinde. È legato all’osservazione e al risultato. In Italia abbiamo molto bisogno di entrambi”.