Musei ecco la controriforma

Il ministro Bonisoli cancella l’autonomia amministrativa Ultimo tassello che ha smontato, pezzo per pezzo, il sistema Franceschini e che alimenta, sul fronte dei Beni culturali, la distanza tra Pd e 5S
di Sergio Rizzo
Hanno appena cominciato ad annusarsi ed ecco il primo dito grillino nell’occhio di Nicola Zingaretti. Gliel’ha ficcato l’attuale titolare dei Beni culturali Alberto Bonisoli, che a Ferragosto, mentre già fioccavano le congetture circa la nascita di un governo giallo-rosso, ha sferrato alla riforma del suo predecessore Dario Franceschini l’ultimo colpo. Mortale: l’abolizione dell’autonomia amministrativa dei supermusei e la contestuale creazione di dieci direzioni territoriali, che avrà come conseguenza l’accorpamento gestionale dei Poli regionali museali. E qui, più che sulle questioni tecniche e organizzative, vale la pena di soffermarsi sulle ripercussioni politiche di questa iniziativa. Dai contorni a dir poco singolari. Decreti sfornati in fretta e furia con Tiziana Coccoluto, capo di gabinetto di Franceschini confermata da Bonisoli, e il segretario generale Giovanni Panebianco, a lavorare con sacrificio per spedire il 16 agosto (!) i testi alla Corte dei conti che ha trenta giorni per registrarli. E dire che quei decreti avevano già aspettato quasi due mesi.
Ha ricordato l’ Huffington post che la fulminea iniziativa di Bonisoli altro non è che la traduzione in pratica di un provvedimento del 19 giugno. Allora l’idillio fra Luigi Di Maio e Matteo Salvini non sembrava ancora del tutto sbriciolato, anche se ciò che stava accadendo al ministero di Bonisoli era un altro capitolo delle tensioni fra i due azionisti del governo di Giuseppe Conte. Fin dal primo giorno quello dei Beni culturali era stato un terreno di scontro non secondario. Gli accordi politici assegnavano il ministero ai grillini, che non potendo per ragioni di opportunità affidarlo al fedelissimo di Di Maio, Vincenzo Spadafora, l’avevano consegnato ad Alberto Bonisoli, amico di lunga data del Gianroberto Casaleggio, trombato alle elezioni nel collegio milanese. Causa pressioni leghiste avevano però dovuto rinunciare al Turismo, strappato ai Beni culturali e insensatamente accorpato al ministero dell’Agricoltura del salviniano Gianmarco Centinaio.
Né la sconsiderata conquista avrebbe risolto le dispute future: inevitabili viste le posizioni in gran parte inconciliabili. La riforma del ministero, che attribuisce alcuni poteri tipici del ministro al segretario generale Panebianco, ex dirigente dell’antidroga di palazzo Chigi proveniente dalla Guardia di finanza, è stata duramente contestata dalla ministra della Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno mentre il governatore leghista del Friuli- Venezia Giulia Massimiliano Fedriga si scagliava contro l’abolizione dell’autonomia del Castello Miramare di Trieste. Ottenendo una repentina marcia indietro. Rullavano i tamburi di guerra salviniani anche contro la decisione di centralizzare le competenze sulla tutela nella direzione generale Archeologia, belle arti e paesaggio. Per non parlare della riorganizzazione dei musei. Rullavano, i tamburi, soprattutto in Veneto e Lombardia, dove i governatori leghisti Luca Zaia e Attilio Fontana conducevano l’offensiva per le autonomie rafforzate rivendicando anche competenza sui Beni culturali.
Ma rullavano anche dalle parti del partito democratico di Franceschini, che in pochi mesi vedeva la propria riforma letteralmente incenerita. Contrariamente ai leghisti, però, senza avere la minima voce in capitolo per contrastare la manovra.
Nessuno, tuttavia, avrebbe potuto immaginare che nello spazio di pochi giorni tutto sarebbe cambiato. Senza più la spina nel fianco della Lega, incarnata al ministero dalla sottosegretaria Lucia Borgonzoni, fedelissima di Salvini e già praticamente investita della candidatura a governatrice dell’Emilia Romagna alle prossime regionali, Bonisoli e i suoi si sono scatenati. Offuscando anche l’ultima decisione che aveva fatto sospettare ai dietrologi che fosse in atto al ministero una sorta di disarmo bilanciato. Ovvero, la nomina alla direzione generale più importante, al posto di quel Gino Famiglietti ritenuto un integralista della tutela pubblica sui beni culturali nonché fra gli ispiratori dello smantellamento della riforma Franceschini, di Federica Galloni: considerata esponente della corrente burocratica avversa.
Nel vuoto di pot ere spalancato da Salvini dopo il suo annuncio di voler staccare la spina al governo di Giuseppe Conte, non è passato praticamente giorno senza che il ministero di Bonisoli battesse un colpo violento. Prima la denuncia che la crisi avrebbe mandato all’aria il piano di quattromila assunzioni. Quindi, un paio di giorni prima di Ferragosto, il trasferimento in gestione dal polo museale della Lombardia a Brera della gestione del Cenacolo di Leonardo da Vinci e la formalizzazione del passaggio delle Gallerie dell’Accademia di Firenze agli Uffizi. Il tutto, ha sottolineato Silvia Lambertucci in un dispaccio Ansa, non senza malumori del sindacato e «del consiglio superiore dei beni culturali, che il ministro non ha consultato».
In quei giorni roventi c’è stato anche lo spazio per una stilettata al sindaco di Palermo Leoluca Orlando, sotto forma di una lettera con cui Bonisoli giudicava inopportuna la nomina di Francesco Giambrone a sovrintendente del Teatro Massimo di Palermo: perché fratello di Fabio Giambrone, vicesindaco del Comune che è uno dei soci della fondazione teatrale. Salvo poi ripensarci e sottoscrivere il decreto di nomina di Giambrone. Ma l’affondo più inaspettato, in piena crisi di governo, è stato quello della riorganizzazione dei musei. Che oltre a essere indigesta per le Regioni, non poteva andare giù nemmeno all’ex ministro Franceschini. Proprio colui che nel Partito democratico ha lavorato perché si aprisse un canale di dialogo con il Movimento 5 stelle. E ora si becca questo bel segnale di ringraziamento. Fra chi ha condiviso a lungo con lui l’esperienza al ministero c’è qualcuno pronto a giurare che la riorganizzazione dei musei voluta da Bonisoli sarà la prima cosa a venire smontata nel caso in cui davvero il governo giallo- rosso vedesse la luce. Non esitiamo a crederci. Ma se il buongiorno si vede dal mattino…
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