Marguerite Duras La signora del desiderio

di Rosella Postorino
Marguerite Duras è la scrittrice del desiderio. Non solo del desiderio erotico, ma del desiderio come elemento che definisce l’umanità, che distingue ciò che è umano da ciò che non lo è. Per i suoi personaggi il desiderio ha la potenza di un’epifania, capace di illuminare la loro parte più nascosta e insondabile. Ha la forza d’urto di una catastrofe, è un’apocalisse che, letteralmente, toglie il velo, scoprendo così la natura umana nelle sue pulsioni estreme, oscene persino. Scrivere significa per Duras non solo decidere di non negarle o ignorarle, ma soprattutto cercare un linguaggio nuovo per dirle, addentrandosi nel « luogo d’ombra dove si ammassa tutta l’integrità del vissuto».
Le donne durassiane trovano nel desiderio erotico uno spiraglio verso l’emancipazione, una forma di intelligenza: per la Anne Desbaresdes di Moderato cantabile, l’attrazione nei confronti di Chauvin è una via di fuga dallo stretto perimetro in cui il suo status di moglie borghese l’ha imprigionata; la quindicenne de L’amante va nella garçonnière del ricco cinese, che ha più del doppio dei suoi anni, addirittura per « approfondire la conoscenza di Dio » ; e nel momento in cui è rapata a zero, per aver avuto una relazione con un tedesco durante l’Occupazione, la ragazza di Nevers riassume nel proprio corpo l’atrocità della guerra, che divide gli umani dagli umani, e oggi, anni dopo, mentre fa l’amore con un giapponese e le immagini dell’esplosione si sovrappongono a quelle dell’amplesso, entra in contatto con l’orrore della bomba atomica, nel film culto Hiroshima mon amour, che Alain Resnais volle fosse scritto da Marguerite Duras. Il film accese polemiche per l’accostamento dell’intimità fisica con la strage storica, ma per Duras non c’è separazione né gerarchia tra l’amore e la Storia, perché la Storia è il risultato delle vite quotidiane, delle perdite, delle ambizioni, degli affetti, delle passioni, del dolore degli esseri umani. La Storia è scandalosa — come in Elsa Morante — proprio perché ingurgita e tradisce le persone, le loro singole esistenze private. Ecco perché per Duras il desiderio ha un valore quasi politico: è una rivendicazione, rompe gli schemi in cui la società, la Storia, il linguaggio stesso ci intrappolano, è una forma di ribellione, ha un impatto sovversivo, è lo scacco di ogni comunità, come disse Maurice Blanchot, che a Duras ha dedicato diverse riflessioni.
Nei testi durassiani l’amore non è mai romantico, anzi il desiderio circola in maniera intercambiabile, prescinde dal destinatario o da chi lo prova: loro non ne sono che un « supporto passeggero » . È proiezione, atto d’invenzione, quasi narrativo, somiglia alla letteratura. È una calamità naturale, una « falla improvvisa nella logica dell’universo » , che squarcia il velo, appunto, e mostra il nostro anelito di assoluto condannato a restare insoddisfatto. Non è mai scisso dalla violenza, perché nell’amore per antonomasia, quello della madre verso il figlio, c’è già il crimine dell’infliggere la morte, riservata a chiunque sia nato, e perché qualsiasi amore si compie nel riconoscimento dell’alterità e al contempo nell’aspirazione a introiettarla, a fondersi con l’altro. Ma è un’aspirazione irrealizzabile, che può generare, come in Anne Desbaresdes o nella donna de L’uomo seduto nel corridoio, una pulsione di morte («suicidaria», l’ha chiamata Duras riferendosi a sé stessa, a quanto le era capitato personalmente) che spinge a darsi in pasto al proprio amante. Una pulsione masochista, pericolosissima da raccontare, fraintendibile e controversa: avendola vissuta ( con lo scrittore Gérard Jarlot), Duras non intende tacerla. Scrivere significa sporgersi il più possibile verso la verità, anche quando è inconcepibile o intollerabile, al punto che per paradosso «solo i pazzi scrivono completamente».
In preda a un certo oblio di sé, come Lol V. Stein ( « la mia piccola pazza»), che assiste rapita alla scena primaria del ballo in cui Anne- Marie Stretter le sottrae il fidanzato, nel romanzo che ha ispirato l’Omaggio a Marguerite Duras di Jacques Lacan, le donne durassiane oppongono una resistenza passiva, « forza colossale » contro il sistema, usano l’inerzia contro l’oppressione. E sono sempre, così come i personaggi maschili, archetipi, individui assoluti, che mostrano il rischio di disfatta insito in ogni rapporto.
È questa la dimensione universale dell’opera di Duras — ho usato sopra la parola testi, come faceva lei, che spesso rimaneggiava un suo scritto letterario per trasformarlo in una pièce o in un film, e viceversa, e che è stata una delle autrici francesi più importanti del Novecento proprio perché, con i romanzi e i racconti, il teatro, il cinema, il giornalismo, la militanza politica ( è stata un membro della Resistenza; a rue Saint-Benoît, dove abitava con il marito Robert Antelme, poi deportato e sopravvissuto a Dachau, si riuniva una cellula di cui faceva parte François Mitterand), ha attraversato l’intera cultura del suo Paese. Non a caso la Francia ha ormai consacrato quest’autrice, nata nel 1914 a Gia-Dinh, allora Indocina, e morta a Parigi nel 1996, che seppe parlare la lingua vietnamita fino ai diciotto anni — quando lasciò le colonie per la madrepatria — e poi la dimenticò, che passò un’infanzia selvaggia tra gli indigeni, conobbe la miseria e le dinamiche di potere fra le classi sociali, che visse intensamente eppure alla vita preferì la letteratura. È indispensabile continuare a pubblicarla anche in Italia, a leggerla, a diffonderla come un rimedio che può renderci più lucidi, più sinceri rispetto a ciò che siamo. Perché esponendosi all’altro, all’impossibilità di comprenderlo sino in fondo, alla cesura insuperabile dei corpi e delle menti, alla possibilità della violenza, dell’assenza, della morte, come chiunque viva, continuando tuttavia a desiderare, a insistere nella ricerca ostinata dell’altro, verso cui il desiderio li muove, i personaggi di Duras raccontano, con «gaia disperazione», la condizione crudele e affascinante di noi esseri umani.
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