Lauren Bacall, quello sguardo sfrontato di chi è abituato a vincere

Era una di quelle serate newyorchesi indimenticabili, che ti fanno sentire nel cuore del mondo, dandoti nello stesso tempo l’energia di poterlo conquistare e la paura di non farcela. Mi aggiravo per il locale, tra eccitazione e timidezza, e improvvisamente mi accorsi di una fila di persone per omaggiarla: erano quasi tutte star, ma nessuno aveva il suo carisma, eppure Lauren Bacall aveva già 70 anni. Sorrideva con aria vagamente annoiata, spalancando quegli occhi grandi e luminosi che le avevano fatto conquistare il soprannome The Look, lo sguardo per antonomasia. Splendevano nella maniera sfrontata di chi è abituata a vincere, come quando era apparsa per la prima volta sullo schermo, inAcque del Sud, insieme a Humphrey Bogart. E aveva conquistato lui e il mondo intero con la battuta «sai fischiare?», pronunciata dopo averlo baciato.

Aveva solo 19 anni, all’epoca, e Bogart ne aveva 25 di più: si innamorarono perdutamente e diventarono una delle coppie più leggendarie, glamour e impegnate di Hollywood, per la felicità di Ernest Hemingway, che aveva scritto il film, Howard Hawks, che lo aveva diretto, e John Huston, che era amico di entrambi e certo che fossero nati l’uno per l’altra. Da allora avevano sfilato insieme per protestare contro la caccia alle streghe maccartista, dichiarando di essere nemici del comunismo, ma quello che faceva McCarthy era «un tradimento di cosa è l’America». Avevano dispensato pillole di saggezza liberal, facendosi fotografare in versione casalinga e in barca a vela, con Adlai Stevenson, Arthur Schlesinger o Spencer Tracy e Katharine Hepburn. Erano diventati genitori di un figlio chiamato Stephen, ed erano tornati insieme sul set in film memorabili come La Fuga, Il grande sonno e l’Isola di corallo.

Il loro matrimonio era durato 12 anni: Bogart si era ammalato di cancro ai polmoni e morì a 57 anni, lasciandola vedova a soli 32. Un dolore enorme, inguaribile, che lei aveva vissuto in silenzio e con l’alterità della diva, prima di trovare un nuovo, grande amore in Jason Robards, dopo una turbolenta relazione con Frank Sinatra. «Vorrei tanto che si limitasse a cantare», aveva detto di lui, in seguito. Quella sera al Tavern on the Green, Marisa Tomei mi chiese cosa rendesse così uniche le dive di una volta, e io non seppi trovare una risposta, salvo l’idea di irraggiungibilità: l’appartenere a un universo che ha solo le apparenze del nostro. The Look continuava a salutare tutti, con aria sempre più annoiata, ma era chiaro che si cibava di quei momenti: la vidi sorridere solo quando si avvicinarono Scorsese e Tarantino e origliai una frase che disse ai due registi «viviamo in un’epoca di mediocrità».

Tornato a casa, volli documentarmi su di lei, e appresi che era nata nel Bronx con il nome di Betty Joan Perske. «Troppo ebreo» disse Diana Vreeland che la volle in copertina su Harpers Bazaar: aveva solo 18 anni e fu notata da Slim Keith, che la raccomandò al marito Howard Hawks per Avere e non avere. Il regista le fece un contratto per sette anni, chiedendole di studiare recitazione e declamare quattro ore al giorno Shakespeare. Poi le disse che aveva a sua volta problemi con quel nome, ma lei ne era orgogliosa: proveniva dalla Bielorussia e nessuno aveva osato toccarlo, neanche ad Ellis Island. Accettò di cambiarlo solo quando i genitori divorziarono, e aggiunse una L al cognome rumeno della madre, Bacal. Poi sostituì Lauren a Betty, le sembrava che avesse una migliore assonanza, e nella costruzione di una nuova personalità si intravede già molto della futura star. Quando la intervistai nel suo appartamento al Dakota, su Central Park, rifiutò di parlare di cinema e dei due celebri mariti, spiegandomi invece che era cugina di Shimon Peres. «Il suo vero nome è Shimon Perske, e quando è venuto lo scorso anno in città – mi disse – abbiamo parlato per ore della nostra famiglia: non abbiamo mai l’opportunità di farlo».

Per molto tempo aveva pensato di fare solo la modella, non era convinta del suo talento recitativo, fin quando, un compagno di una classe di recitazione le disse che era brava. Si chiamava Issur Danielovitch e aveva cambiato il nome in Kirk Douglas. Avere e non avere la trasformò immediatamente in una star. «Il divismo non è una professione, ma un incidente – mi disse in quell’incontro – in realtà sono una persona solitaria». Dopo l’esordio folgorante con Howard Hawks, cominciò a recitare accanto alle più grandi star di Hollywood, senza mai temerne il confronto, persino quando duettò con Marilyn Monroe. E interpretò film bellissimi, che appaiono inconcepibili senza la sua presenza, come Written on the Wind, di Douglas Sirk. Era tale il suo carisma, che persino una star dalle idee politiche opposte come John Wayne la volle accanto a sé nel Pistolero.

Riuscì ad eccellere anche nel teatro, e quando interpretò a BroadwayApplause, la versione teatrale di Eva contro Eva, ricevette i complimenti a sorpresa di Bette Davis . Nel finale di carriera divenne la beniamina di registi di culto quali Lars von Trier e Paul Schrader: fu candidata all’Oscar per The Mirror Has Two Faces, ma il premio le venne scippato dalla pur bravissima Juliette Binoche per Il Paziente Inglese: «Sono ancora viva – dichiarò in quell’occasione – ho passato la mia infanzia a New York e ho imparato una cosa da questa splendida città: il mondo non ti deve niente». L’ultima volta che la vidi era silenziosa e inaspettatamente malinconica. Cercai di lusingarla dicendole che era una leggenda, e lei mi gelò con quegli incredibili occhi azzurri: «Mio caro, le leggende appartengono al passato».

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