Il Novecento delle pandemie

 

 

Lo storico

Guido Alfani (Castellamonte, Torino, 1976) è professore di Storia economica alla Bocconi di Milano. Si occupa di disuguaglianza economi-ca e mobilità sociale nel lungo periodo e di demo-grafia storica (storia di epi-demie e carestie). È autore di Pandemie d’Italia (Egea, 2010), con Alessia Melegaro

Bibliografia

Circa la capacità delle grandi catastrofi, e in particolare della Peste Nera, di ridurre le disuguaglianze si veda Walter Scheidel, La Grande Livellatrice. Violenza e disuguaglianza dalla preistoria a oggi (il Mulino, 2019). Sulla disuguaglianza nell’Otto e Novecento, Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo (Bompiani, 2016), e Branko Milanovic, Global Inequality (Harvard University Press 2016)

Dalla devastante epidemia di Influenza Spagnola a Covid-19 è trascorso poco più di un secolo. Cento anni in cui virus e batteri hanno provocato epidemie capaci di diffondersi su vasta scala e assumere i connotati di un’epidemia globale: la pandemia. Nel libro Pandemie, ideato e scritto un paio di anni fa, lo storico della medicina e giornalista inglese Mark Honigsbaum racconta gli sforzi scientifici e politici per fronteggiare questi eventi. Il volume, in libreria dal 3 settembre per Ponte alle Grazie, è arricchito da un capitolo finale e una postfazione all’edizione italiana scritti durante l’attuale emergenza.

Cento anni di pandemie: sembra che i patogeni riescano sempre a prenderci di sorpresa. Come è possibile?

«Le ragioni sono diverse. La prima è un problema di hybris scientifica, che presto diventa anche politica. Non conosciamo bene i patogeni che abbiamo scoperto da molto tempo, figuriamoci quelli nuovi. Ci illudiamo quindi di avere la situazione sotto controllo, come è accaduto lo scorso gennaio e come accadde un secolo fa quando arrivò l’Influenza Spagnola. Agli inizi del Novecento non avevamo la genetica molecolare o la virologia, ma esistevano già la batteriologia e l’epidemiologia. Era noto che ogni 30-40 anni si verificassero eventi pandemici, ma molti pensavano che l’influenza non rappresentasse un problema così grave. Quindi le avvisaglie furono sottovalutate, e l’influenza ci colse di sorpresa».

Dunque fatichiamo a imparare dai nostri errori?

«Sì, questa è un’altra causa all’origine delle pandemie. Viviamo un ciclo di paura e trascuratezza. Quando una pandemia inizia a fare vittime, arriva il panico. È il momento in cui si fanno promesse di ogni tipo per sostenere la ricerca. Ma quando l’emergenza non c’è, le risorse sono limitate e impiegate altrove. I vaccini ne sono un esempio. Prima del Covid-19 sono state svolte ricerche sui coronavirus, ma erano poche e senza fondi. Per prevenire queste oscillazioni di investimenti, la fondazione Cepi (Coalition for Epidemic Preparedness Innovations) stava raccogliendo sussidi per sviluppare vaccini contro malattie emergenti, fra cui Nipah, Lassa, Sars e Mers, che pur non avendo colpito in modo massiccio, rappresentano una potenziale minaccia. Puntavano a raccogliere un milione di dollari, sono arrivati a 750 mila. Ora sembra che sviluppare un vaccino per Covid-19 ci costerà almeno un miliardo di dollari. Questa è una diretta conseguenza delle politiche e delle economie di breve periodo».

Dal suo libro si comprende che le politiche utili per contrastare nuove pandemie sono soprattutto sforzi locali.

«È un noto paradigma: “Pensa globalmente, agisci localmente”. Ovviamente bisogna agire su entrambi i fronti. Prendiamo l’esempio del virus Zika, un evento pandemico recente alla base del quale c’è un vettore ben preciso, le zanzare. Negli anni Trenta e Quaranta la Rockefeller Foundation eradicò la febbre gialla in Brasile, ma le zanzare tornarono presto perché le opere di sanificazione furono trascurate, così come le pratiche basilari che impediscono alle zanzare di riprodursi. Così nel 2015 il virus Zika ha potuto diffondersi facilmente. Possiamo vedere anche Covid-19 come un insieme di epidemie locali, che vanno combattute con scelte politiche mirate: fare molti test, attuare il contact tracing, isolare i positivi, velocizzare la diagnosi e via dicendo. Dall’altro lato è anche possibile ragionare su che cosa significhi pensare globalmente durante una pandemia: ogni Paese non dovrebbe badare soltanto ai propri interessi».

La scienza che ruolo ricopre? Il suo libro è pieno di storie di scienziati che non hanno capito che cosa stesse succedendo.

«Ci aspettiamo che la scienza ci protegga dai patogeni, ma ricordiamoci che le pandemie sono prima di tutto problemi politici, economici e sociali. Il profitto e la produzione di massa non sono gli unici obiettivi a cui le società dovrebbero aspirare. Una democrazia dovrebbe prima di tutto garantire la salute dei propri cittadini, i più vulnerabili in particolare. Detto ciò, la sociologia della medicina illustra bene come la scienza non faccia il suo lavoro in un vuoto politico e sociale. Gli scienziati decidono che cosa è importante studiare e che cosa si può accantonare in base alle risorse a loro disposizione. Questo fa sì che spesso la scienza sia cieca di fronte ai patogeni che ancora non conosce o che conosce troppo poco. Tant’è vero che diverse svolte nella storia della scienza sono avvenute quando gli scienziati hanno pensato fuori dagli schemi. La soluzione è che la ricerca sia il più possibile ad ampio spettro, ma la realtà impone comunque una strategia. Un esempio: abbiamo investito molto sui vaccini, ora è necessario farlo anche sugli antibiotici, perché oggi abbiamo avuto la fortuna di non essere stati colpiti da un evento pandemico legato all’antibiotico-resistenza, ma questo potrebbe verificarsi in futuro».

Crede che l’attuale pandemia inciderà sull’antivaccinismo?

«Mi piacerebbe pensare di sì. Ma i sondaggi mostrano numeri allarmanti. Secondo uno di questi un terzo degli inglesi rifiuterebbe un vaccino per il Covid-19. L’antivaccinismo mostra una spaccatura nella società: da una parte c’è chi è mosso da una prospettiva individualistica e fortemente libertaria (persone di destra e di sinistra in eguale misura) e dall’altra c’è chi mostra una responsabilità sociale maggiore. Ad ogni modo, credo che l’attuale pandemia abbia “purificato” il senso di cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. C’è un grande potenziale di cambiamento. Purtroppo gli studi storici come quelli che svolgo mostrano che la maggior parte delle pandemie non ha mai portato grandi cambiamenti. Quando torna la normalità, qualunque essa sia, l’istinto umano ci spinge a dimenticare. Lo ritengo un grave errore».

Nel suo libro si sofferma spesso sul ruolo dei media. Quanto sono importanti durante una pandemia?

«Quando non scrivo libri su questi argomenti insegno ai giornalisti come trattare i temi scientifici nel migliore dei modi. Noto che molti di loro non li comprendono. Il problema? Esistono le scienze ed evolvono in continuazione».

Come giudica il lavoro dell’Organizzazione mondiale della sanità durante le ultime pandemie?

«È un lavoro molto difficile. Pensi che il budget dell’Oms è circa un decimo di quello del Cdc americano: quest’ultimo deve occuparsi della sicurezza sanitaria degli Stati Uniti, l’Oms deve badare all’intero pianeta. In fondo, si tratta di un’organizzazione diplomatica, che non ha in realtà alcun potere e non può costringere un Paese a fare alcunché. Può soltanto avvertire e persuadere. Oggi sappiamo che all’inizio del 2020 ci sono stati alcuni ritardi. Inoltre, hanno esitato a chiamare pandemia una situazione di cui era chiara la gravità».

Nella postfazione all’edizione italiana scrive che è necessario uno sforzo di immaginazione per evitare nuovi disastri. In che modo?

«È un argomento su cui sto ragionando in questo periodo. Ci sono evidenti parallelismi fra le pandemie e le crisi ambientali. Uno dei problemi è che le nostre società industriali sono solite pensare al rischio in termini di soli numeri. Guardi ai modelli che illustrano l’andamento di un’epidemia. Lo sforzo che questo richiede finisce in realtà per limitare le possibilità che abbiamo di rispondere alla crisi in modo adeguato. Credo che questo si sia verificato in tutte le pandemie che ho raccontato. Abbiamo invece bisogno di pensare in modo flessibile e fuori dagli schemi. Ed è importante anche pensare sul lungo periodo, perché questo ci costringe a riflettere su ciò che crediamo di sapere sul nostro presente. Nessuno avrebbe mai immaginato di poter mettere in quarantena una città nel XXI secolo, ma a Firenze lo fecero già nel Seicento. Abbiamo bisogno più di immaginazione che di ogni altra cosa».

 

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