Marchionne, il manager che divide le due sinistre.

Da Fiat a Fca, la fine del Novecento. Le diverse reazioni di Renzi e di Rossi rappresentano fedelmente la lacerazione politica provocata dalla globalizzazione
In morte di Gianni Agnelli (1921-2003) la quasi totalità dei commenti politici e giornalistici fu elogiativa; con venature encomiastiche. Tanto da far pensare, al netto del prestigio quasi regale dello scomparso, a un certo tasso di conformismo politico e mediatico. Non sta andando allo stesso modo per Sergio Marchionne, secondo Re della Fiat, la cui statura di grande capitano d’azienda non è in discussione (è l’evidenza dei fatti a renderla indiscutibile).

Ma il cui ruolo di traghettatore della vecchia Fabbrica Italiana Automobili Torino dall’epopea nazional-novecentesca, robustamente assistita dallo Stato, all’oceano procelloso e spietato della globalizzazione, è inevitabile oggetto di controversia: perché poche vicende come quella della trasmutazione di Fiat in Fca sono simboliche della fine del Novecento, della fine della civiltà della fabbrica, del primato (definitivo?) della finanza sul lavoro.

Il raffronto tra i due destini, quello di Agnelli e quello di Marchionne, non depone a sfavore, una volta tanto, del nostro presente e della nostra parola pubblica. Meglio oggi. Non si sta parlando, ovviamente, della ripugnante ciancia che circola sui social, tanto irriguardosa quanto sprovveduta. Dovremmo abituarci a considerarla zero, di interesse della polizia postale quando è il caso, altrimenti dello spam. Si sta parlando della parola politica e mediatica, che su Sergio Marchionne, in queste ore, è stata piuttosto vivace, non inibita dal dispiacere, sincero e diffuso, di saperlo in una situazione irreversibile senza preavviso alcuno. Si va dal favore molto partecipe di Renzi (“il lavoro si crea con l’impresa, non con l’assistenzialismo”) al governatore della Toscana Enrico Rossi che “nel rispetto della persona” gli imputa “l’autoritarismo in fabbrica” e la drastica diminuzione degli occupati in Italia.

Non sono da condividere le accuse di servo encomio rivolte a Renzi, tantomeno quelle di oltraggio rivolte a Rossi. Rappresentano fedelmente, e onestamente, la tremenda lacerazione della sinistra nel terzo millennio, la vertigine “modernista” e mercatista che suppone (o si illude) di recuperare benessere e perfino occasioni di lavoro con un assetto radicalmente nuovo, l’angoscia di chi nella distruzione dei vecchi assetti, dei vecchi diritti sindacali, della perduta centralità operaia, non vede altro che le macerie, e si domanda se non ci fossero alternative.

Nessuna figura come quella di Marchionne rimanda a questa discussione, che naturalmente non riguarda solo la sinistra – o ciò che è diventata, oppure non è più – ma chiunque abbia titolo per occuparsi del cambiamento d’epoca nel quale siamo immersi fino al collo.

Non si capisce, a questo proposito, perché il ministro del Lavoro Di Maio, dopo avere ammesso che “con Marchionne non siamo andati d’accordo quasi su nulla”, definisca “miserabile una sinistra che gli ha permesso di fare quello che vuole e ora lo attacca”. È la banalizzazione sciocca di una lunga epopea sociale e politica. La sinistra evocata da Di Maio non è, e non è mai stata, un direttorio di attivisti come quello di cui fa parte il leader grillino. La sinistra è quella vasta e complessa parte di società che è stata più di ogni altra, dalla globalizzazione e dalla finanziarizzazione, letteralmente devastata: nelle sue idee politiche e nel suo linguaggio come nel vivo del suo corpo sociale, nella sua classe di riferimento, che erano i lavoratori salariati, nei suoi strumenti di azione, che erano il partito e il sindacato, nei suoi giornali, nei suoi intellettuali.

È dunque del tutto lecito e naturale che sia soprattutto la sinistra, al capezzale di Sergio Marchionne, a discutere su come sono andate le cose; se potevano andare diversamente; o se al contrario, senza gli spregiudicati colpi di timone dell’uomo col maglione, potevano andare perfino peggio, anche in termini di occupazione. Tra le mille discussioni inutili e narcise, a sinistra, questa è sicuramente la meno fatua e la più sostanziosa, e sarà importante farla (magari senza stipare le parole in un tweet) a viso aperto, non “contro” Marchionne, semmai per merito della impeccabile precisione aziendalista con la quale ha incarnato un’epoca.

Dice Fausto Bertinotti che nei suoi anni di sindacato “si discuteva di ciò che le persone rappresentavano. Si discuteva del capitalista, dell’imprenditore, del padrone. Ma non si attaccava mai la persona. Anche perché questo avrebbe significato mettere in secondo piano l’analisi sulla società, che poi era quella che ci interessava”. A parte qualche distinguo nella ricostruzione storica (si colpivano eccome anche le persone, in quegli anni), Bertinotti ha ragione: è quanto si dovrebbe fare adesso, discutere il ruolo e rispettare la persona, senza scandalizzarsi per la diversità anche profonda, e per altro già arcinota, dei punti di vista. Si chiamava “politica”, si chiama ancora così. Marchionne ha fatto bene il suo lavoro, la politica ricominci a fare il suo, che è discutere del futuro e domandarsi se ci sono, per il futuro, opzioni supplementari, oltre a quelle già messe a bilancio.

Fonte: La Repubblica, www.repubblica.it/