L’ombra che turba i tedeschi

L’estrema destra

 

di Paolo Mieli

 

Stavolta tutto si è risolto in tempi rapidi. In Turingia, il liberale Thomas Kemmerich, eletto alla carica di governatore con i voti determinanti della Cdu e del partito di ultradestra Alternative für Deutschland, si è prontamente dimesso. Gli è stato sufficiente ascoltare le parole sdegnate di Angela Merkel e ha capito che era meglio gettare la spugna. La cancelliera aveva condannato all’istante l’«esperimento di Kemmerich» definendolo «imperdonabile», e il 5 febbraio del 2020 da ricordare come «un giorno nero per la democrazia». L’ira della Merkel era poi aumentata non appena le erano giunte alle orecchie le voci dell’imbarazzo manifestato dallo stesso capo di Kemmerich, il leader dei liberali tedeschi, Christian Linder. E soprattutto quando aveva dovuto prendere atto delle minacce di rottura della coalizione di governo da parte del socialdemocratico Norbert Walter-Borjans e del vicecancelliere (sempre Spd) Olaf Scholz sdegnati per il «tradimento dei valori democratici» consumato a Erfurt, capitale della Turingia. I quali Walter-Borjans e Scholz, a loro volta, si erano visti costretti a un pronunciamento così duro dopo che il governatore uscente della Turingia, Bodo Ramelow (esponente di Die Linke nonché «vincitore» — con il 31 per cento — delle elezioni di tre mesi fa) aveva minacciato di mandare a monte ogni intesa, anche locale, con la Spd. Spd rea ai suoi occhi di essere alleata nel governo di Berlino con coloro che adesso avevano «rotto il cordone sanitario» antinazista.

Un bel pasticcio. Fortuna che Kemmerich, resosi conto del guaio combinato dai suoi «grandi elettori», nemmeno per un attimo ha provato a resistere alla guida dell’importante Stato dell’ex Germania dell’Est. Ma va comunque registrato che per la prima volta — sia pure solo per qualche ora — si è aperta una falla nel muro dell’antisovranismo europeo.

A questo punto si pongono alcune domande: è possibile che la Cdu della Turingia non avesse messo nel conto l’allarme che avrebbe creato un’improvvisa alleanza con Alternative für Deutschland? O piuttosto quell’impresentabile intesa voleva essere un modo di portare allo scoperto manovre consumate alle spalle della declinante Merkel la quale, come i capi di quasi tutti gli altri partiti centristi europei, si è sempre dichiarata indisponibile ad accordi con l’estrema destra? È improbabile che il leader democristiano al Parlamento di Erfurt, Mike Mohring, non si sia reso conto di quali sarebbero state le conseguenze di un patto del genere (stipulato, per giunta, con Björn Höcke, esponente dell’ala più radicale e fascisteggiante di Afd). È ipotizzabile, anzi, che nei propositi di Mohring ci sia stata l’intenzione di saggiare il terreno in vista proprio di una più generale rottura dello storico tabù. I partiti europei di centro, che pure in questo dopoguerra avevano dato un fondamentale contributo alla costruzione della barriera antinazista, da quando hanno iniziato a perdere terreno sono stati esposti alla tentazione di sperimentare nuove alleanze proprio con le formazioni che sono dall’altra parte della suddetta barriera. In quasi tutti i casi hanno resistito. Ma la sperimentazione in Turingia, con il coinvolgimento per di più dei liberali diretti beneficiari dell’iniziativa, probabilmente voleva essere appunto un segnale in vista di questa preoccupante «novità». Intendevano, democristiani e liberali di Erfurt, far sapere al mondo che, al riparo delle professioni di intransigenza, i vertici locali della Cdu, del partito di Linder e di quello neonazista discutono con disinvoltura di possibili nuove combinazioni. Adesso a Erfurt la cosa si è velocemente smontata da sé. Può darsi che vada a finire così anche la prossima volta. Ma prima o poi… C’è però un’ulteriore lezione che viene dalla cittadina sull’Elba. L’incontro tra centristi e destra, anche la più radicale, può essere uno degli imprevedibili effetti provocati da sistemi elettorali per cui chi va al potere non lo decidono gli elettori (come ad esempio accade ancora nelle regioni e nei comuni italiani), bensì gli eletti, per di più — come è consueto — sulla base di trattative non trasparenti. Sulla carta con i sistemi proporzionali tutto sembrerebbe funzionare alla meraviglia: in nessun Paese europeo è probabile che l’estrema destra conquisti da sola il 50 per cento dei voti, talché sarà sufficiente far affidamento sui giochi parlamentari e un’alleanza contro la destra la si troverà. Magari anche contando sull’istinto di conservazione di parlamentari appena eletti che non vogliono tornare al voto e mettere così a rischio un seggio faticosamente conquistato.

Ma in questo modo i partiti che si vedranno obbligati a ricorrere ad alleanze anche le più strambe, avranno l’handicap di apparire ai loro seguaci insinceri nei propositi annunciati alla vigilia delle elezioni e sembrerà che siano guidati da cinici trasformisti. Sicché tali partiti si troveranno poi in difficoltà nell’impresa di conquistare masse di nuovi elettori. In più saranno costretti a coltivare all’interno delle loro alleanze personalità o gruppi disponibili, quando riterranno sia giunto il momento opportuno, a trasferirsi nel campo opposto.

È vero: l’esperienza italiana degli anni successivi al 1994 insegna che nessun sistema elettorale mette al riparo da questi effetti, garantisce stabilità e, tanto meno, assicura la sconfitta delle coalizioni più radicali ed estremiste. Ma il segnale che viene dalla Germania dovrebbe indurci a riflettere sul fatto che sottrarre agli elettori la scelta di chi dovrà governare può minare nel profondo una democrazia. Quella tedesca, ad esempio. Ma anche quella italiana.

 

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