L’archistar che ha appena ricevuto il Leone alla carriera della Biennale spiega la sua filosofia: “Non singoli progetti ma sistemi integrati e in armonia con l’ambiente”
di Cloe Piccoli
VENEZIA
C’è una luce meravigliosa che sottolinea le linee delle volute che sostengono la cupola, guardi come accompagna le forme e i profili della chiesa, giù fino all’arco della porta che sembra un arco trionfale. Quale prologo è più azzeccato per parlare d’architettura di Santa Maria della Salute?».
L’aria è tersa, Venezia illuminata dal sole alto del mezzogiorno, mentre Rafael Moneo, insignito del prestigioso Leone d’Oro alla carriera alla diciassettesima Biennale di Venezia, a cura di Hashim Sarkis, riflette sulle sfide dell’architettura: dalla condivisione al modello di città, alla ridefinizione della disciplina. Spagnolo, 84 anni, Pritzker Prize, architetto e teorico, Moneo, elegante nel suo estivo abito di lino chiaro, interpreta il modernismo in chiave poetica e contemporanea in edifici che plasmano la luce come il Museo d’Arte romana a Merida, l’ampliamento del Prado a Madrid, la cattedrale di Los Angeles, o lo Science Building della Columbia University a New York e il Palazzo del Cinema al Lido di Venezia.
Qual è la sua risposta al titolo di questa Biennale Architettura, How will we live together ?
«Dopo la pandemia questo è il tema più importante. Sarkis l’aveva immaginato prima che succedesse tutto e ora è ancora più urgente capire come vivere insieme. Una delle opzioni è la condivisione: condividere risorse, culture, linguaggi senza dimenticare il senso di libertà e autonomia che individui, paesi e grandi corpi sociali domandano».
È la città il luogo per vivere insieme?
«Fino a cinquant’anni fa sembrava strano parlare di città di otto, dieci, venti milioni d’abitanti, oggi lo facciamo come se fosse naturale e non possiamo fare altro che accettare che alcuni paesi per l’impennata demografica abbiano costruito megalopoli gigantesche.
Le mega città continueranno ad esistere, lo vediamo in Asia, Africa, persino in Europa, il tema è come organizzarle».
Come?
«Credo che ancora oggi non si possa pensare alla città contemporanea senza fare riferimento alla città tradizionale.
Bisogna considerare i valori storici e tradizionali di una città: la scala, l’intellegibilità, la mancanza di specializzazione. È vero che con i nuovi mezzi di comunicazione si pensa di poter avere una nuova nozione di lavoro, ed è vero che si può lavorare anche in una piccola stanza, ma ciò che è fondamentale e che va salvato della città antica è la sovrapposizione di funzioni e attività che rendono vivo il tessuto urbano, creano scambio, condivisione, sviluppo e dimensione umana. La divisione netta fra quartieri per uffici, shopping, residenziali o addirittura dormitorio sul modello delle città del lontano Oriente è problematica. Ma stiamo parlando troppo di massimi sistemi, di grandi strategie: non so se è il territorio in cui mi sento più sicuro, non vorrei fare il sociologo». (Ride l’architetto che parla perfettamente italiano con qualche parola di spagnolo, con un linguaggio colto e quasi aulico: d’altronde ha passato metà della sua vita ad insegnare ad Harvard dove ha tutt’ora una cattedra. Il rumore del motore di un vaporetto e di una barca carica di casse di legno, sul Canal Grande, copre per un momento le nostre voci).
Torniamo alla città tradizionale e allo spazio pubblico. Una dimensione che ha affrontato molte volte: ad esempio, con la stazione di Atocha a Madrid.
«Ciò che mi interessa di Atocha è quanto un’infrastruttura come una stazione dei treni interagisca con la città, si integri con l’ambiente, crei funzioni e attraversamenti e indichi persino linee di sviluppo della città stessa. Detto ciò non si può dire che la stazione sia un edificio, il che conferma l’idea che l’architettura debba considerare una scala più ampia che il singolo oggetto».
L’ estensione del Prado a Madrid è un progetto molto interessante…
«È appunto questo che dicevo, l’ampliamento del museo del Prado non è tanto l’espressione della mia capacità o visione personale quanto l’interpretazione che come architetto faccio della funzione di quell’edificio rispetto alla città e alla sua storia».
Un cambio radicale nell’idea dell’architettura.
«L’architettura sta andando in questa direzione: non singoli oggetti, ma sistemi integrati».
La storia è importante per lei?
«Fondamentale».
Come a Venezia ad esempio?
«Venezia può essere considerata il paradigma della città. L’ho sempre percepito sin dalla prima volta che l’ho visitata. E poi ho avuto diverse occasioni di fare proposte per Venezia: a iniziare dal 1978 quando Carlo Aymonino era rettore dello Iuav: con lui c’erano Aldo Rossi e molti altri, e venivano anche amici dagli Stati Uniti come Peter Eisenman e John Hejduk. A quell’epoca abbiamo fatto qualche proposta per Cannareggio, e poi è venuto il concorso per case d’abitazione per la Giudecca. Lo ha vinto Alvaro Siza che ha fatto la proposta urbanistica, in cui era incluso un centinaio di alloggi, alcuni li ha fatti Siza, altri Aymonino, uno è stato assegnato a Rossi e uno a me. Il mio non è ancora stato costruito. Sarebbe fantastico farlo oggi e aggiungere quel tassello mancante al campo di Siza che è ancora incompleto».