La specie di coccodrillo al contrario pubblicato qualche giorno fa da Odifreddi sulla Stampa è sgradevole, certo. Inopportuno, per giunta, mentre lo spirito di Roberto Calasso aleggia ancora – nelle tradizioni funerarie indù, i morti vanno via davvero solo il tredicesimo giorno. Ma non peggio delle tante condoglianze generiche prodotte dalla catena di montaggio del giornalismo – quelle che si devono ai “grandi intellettuali” che “hanno fatto la cultura italiana”, senza che conti poi molto cosa dicessero, in effetti. I salamelecchi scemi sono brutti quanto le ingiurie sceme.

Ai soliti inestetismi letterari della morte, però, Odifreddi ha aggiunto un paradosso triste: proprio Calasso, dopo aver dedicato la vita al difficile che ci è stato affidato – Rilke – deve trovarsi sulla bara questo foglietto, questo schemino delle elementari disegnato da un pensatore semplicissimo. Perché di Odifreddi opinionista si può dire tranquillamente quello che si dice degli pseudoscienziati: not even wrong. Non è che quello che dice sia particolarmente sbagliato, è solo una collezione di residuati bellici che non sparano più. Il dibattito sulle due culture, quella umanistica e quella scientifica, va avanti da un pezzo – il libro di Charles Percy Snow, appunto Le due culture e la rivoluzione scientifica, è del 1959, ma già Comte in epoca vittoriana proclamava il passaggio di testimone dalla teologia alla scienza come “base spirituale permanente dell’ordine sociale”. Un luogo comune della filosofia pop, parecchio frequentato ma non troppo più interessante della disputa perenne fra chi ha fatto il classico e chi lo scientifico. Il problema è che alla base del discorso c’è un fraintendimento: l’idea che esista una cultura, una visione del mondo, persino un’etica, specifica dell’attività scientifica, che gli scienziati la pensino “alla maniera della scienza” e che tutto questo edificio intellettuale, dalla provetta fino alle opinioni religiose di Stephen Hawking, si contrapponga in maniera speculare a un pensiero che sta fuori dal laboratorio e prima di Galileo.

Ma la scienza è un metodo. Il complesso di strumenti e tecniche che, se applicato correttamente, produce modelli teorici di fenomeni naturali. La scienza non ha bisogno di credere in niente, e soprattutto non ha bisogno che qualcuno ci creda. Riguarda il nebuloso concetto di cultura scientifica quanto la fabbricazione del calcestruzzo riguarda l’architettura. Poi, certo, c’è l’enorme bagaglio di riflessione sulla tecnica, le macchine, la coscienza, l’antropocentrismo, il materialismo… ma non è scienza. La tradizione analitica anglosassone, quella di Bertrand Russell a cui attingono Odifreddi e simili, non è un’altra cultura rispetto alla filosofia continentale, e dialoga con Heidegger intensamente, e in una lingua comune, più di quanto dialoghi con una batteria di esperimenti e la loro analisi statistica. Perché gli esperimenti non dicono niente al di là di un numero cristallino, univoco. Trovare le implicazioni sociali, esistenziali, metafisiche di quel numero, ovvero farne l’elemento di una cultura, è un progetto che sta oltre la scienza. Alcuni scienziati lo fanno – e certe posizioni dominano l’accademia – ma a quel punto sono già filosofi. “In libera uscita”, con le parole di Odifreddi: solo che lui riserva l’etichetta a quelli che non gli piacciono, mentre nel parco degli umanisti sgambetta qualsiasi scienziato sia passato dalle teorie falsificabili alle narrazioni della verità.

Diventa difficile capire, allora, cosa sia questa “religione antiscientista”: con chi ce l’hanno di preciso Cacciari, Agamben e le masse di no vax che, secondo Odifreddi, li agitano come stendardi della superstizione? Con l’establishment scientifico, il suo prestigio, la sua onnipresenza mediatica? Questioni di sociologia e comunicazione. Con la medicalizzazione del mondo, la riduzione dell’esistenza alla nuda vita? Filosofia politica, sprazzi di Foucault e Illich contro il neopositivismo. Odifreddi ha probabilmente ragione quando dice che, fra quelli che partecipano al dibattito culturale italiano, pochi leggono scienza – nel senso di studi sulle riviste peer reviewed. Ma nemmeno parlano di scienza, quindi poco male. Sarebbe stato curioso, e dannoso, se Calasso si fosse messo a pubblicare ricerche maldestre, coi protocolli sbagliati ed errori di calcolo. Se, insomma, avesse fatto scienza e l’avesse fatta male. Odifreddi, invece, il danno lo vede nell’inclusione di Guenon e Zolla, teosofi, nel catalogo Adelphi. Quasi offeso, Odifreddi, che non si parli ovunque di scienza, e se uno non canta il Te Deum di sicuro sta bestemmiando: atteggiamento tra il narcisistico e il paranoico. Però può tranquillizzarsi: la scienza sta benissimo e funziona sempre allo stesso modo, olimpicamente indifferente alla popolarità. A differenza dei suoi fanboy, che invece alle apparenze ci tengono.

Ma la cifra estetica del nostro tempo è la somiglianza, persino l’identificazione, di ridicolo e tragico. E allora per Viktor Strum, il fisico sovietico di Vita e destino, la scienza è “l’inganno che impedisce di cogliere la follia e la crudeltà della vita”. Questo inganno, non la scienza in sé, stanno difendendo i nostri paladini. Andrebbe abbandonata la consuetudine di definire solo la religione come favola consolatoria: ognuno ha il suo rifugio per la notte. Precedono la scienza, e in qualche modo le hanno permesso di diventare un’impresa storica, alcuni atti di fede simili a quelli abramitici: che il mondo sia comprensibile, non contraddittorio, governato da leggi universali – quel razionalismo che si trova in Tommaso e nella Mu’tazila islamica. Molto, di questi principi, è stato smantellato dalla scienza stessa. Alcune interpretazioni della meccanica quantistica, soprattutto quelle di Everett e von Neumann – ma anche l’interpretazione relazionale del nostro Rovelli – hanno implicazioni metafisiche assurde. Eppure la meccanica quantistica è la teoria più solida della storia, anche se non sappiamo che significa: sperimentalmente, le interpretazioni sono tutte uguali; filosoficamente, capovolgono la vita umana.

E allora vedete, non è di scienza che si parla, ma di noi. Possiamo restare nella fede originaria, indagare questo universo dei molti possibili, ciascuno con le sue leggi casuali, queste nubi di probabilità contraddittorie che stanno, al posto dei concretissimi atomi di Democrito, sul fondo del reale, e inventare i valori, i trionfi culturali che ne derivano: ma la scienza non dice queste cose, la scienza non dice niente. Non è scientifica questa narrazione. Quando Roberto Burioni o Piergiorgio Odifreddi la raccontano non sono scienziati, sono romanzieri fra tanti – e se ne trovano di migliori, ad esempio Vasilij Grossman:

“Il secolo di Einstein e Planck era diventato anche il secolo di Hitler. La Gestapo e il Rinascimento scientifico erano figli della stessa epoca. […] I principi del nazismo e quelli della fisica contemporanea si somigliavano in modo terrificante. La fisica contemporanea parlava di maggiori o minori probabilità dei fenomeni nel tale o talaltro insieme di individui fisici. Ma nel suo meccanismo spaventoso il nazismo non si fondava forse sulla legge della politica dei quanti, della probabilità politica?”