La fatica delle scelteFino alla caduta del Muro la nostra politica estera era pressoché obbligata. E quegli attraversamenti di confine, all’epoca, costavano fatica e implicavano rischio. Non che mancasse una certa dialettica. Nei partiti e nelle coscienze. Nella Dc ad esempio l’ortodossia atlantica veniva celebrata a bassa voce, e qualche volta perfino blandamente contraddetta. Salvo cercare poi di far maturare le scelte e le convenienze della politica spicciola rigorosamente all’interno di quel contesto. Così, quando si trattò di fare l’alleanza con il Psi venne buona l’apertura dell’America di John Fitzgerald Kennedy verso nuovi scenari. E quando si iniziò a parlare con il Pci si cercò di farlo, per quanto possibile, senza contraddire i princìpî della geopolitica dell’epoca. Con minor fortuna, in questo caso.
A Moro, allora presidente del Consiglio, la Confindustria tedesca fece discretamente presente che sarebbe stato un «bel gesto» se la giustizia italiana avesse rilasciato Herbert Kappler. Un gesto che all’occorrenza sarebbe stato adeguatamente remunerato. Messaggio a cui egli oppose un netto, risoluto e quasi scandalizzato diniego. Senza però andare oltre. Erano i vincoli della Realpolitik che consentivano allora di scegliere di volta in volta i comportamenti più giusti e imponevano però sempre di non scivolare verso le alleanze più sbagliate.
La stessa scelta degli euromissili, come s’è detto, costò all’inizio una certa fatica. Per non dire di tante altre occasioni nelle quali i doveri delle alleanze fecero attrito con i sacri princìpî – o con qualcuno di essi. E senza trascurare le piccole convenienze che ciascuno dei leader dell’epoca cercò di guadagnare a sé stesso. Valga per tutti l’esempio di Amintore Fanfani che a ogni elezione quirinalizia mandava il fido Ettore Bernabei a parlare con l’ambasciatore russo per propiziarsi (senza troppa fortuna) il consenso dei grandi elettori del Pci.
Poi però si finiva quasi sempre per trovare il punto di saldatura tra tutte queste cose. E una volta salvata l’anima delle proprie convinzioni e saldato il conto delle proprie convenienze, diventava chiaro che non si poteva oltrepassare una sorta di immaginaria linea rossa di quell’epoca. Il che valeva a dire rispettare limiti e confini che quel mondo aveva dato a sé stesso molto prima di darli a noi.
Quei limiti e confini scandivano il tempo (e la fatica) dell’epoca. Ma per quanto potessero vincolarci ci rendevano anche protagonisti. Poiché appunto era solo nel contesto internazionale, standovi ben dentro, che un paese poteva dare un peso alle proprie ragioni. Rispettando quelle regole e senza mai illudersi più di tanto di poterle riscrivere a proprio uso e consumo.
Dentro e fuori
A distanza di pochi decenni, invece, il rapporto tra il dentro e il fuori si è come capovolto. E una volta guadagnata la libertà di muoverci (quasi) a tutto campo ne abbiamo usato e qualche volta abusato per attraversare una discreta quantità di frontiere. Salvo trovarci poi al punto di prima, e molte volte anche più indietro. È rimasto il vincolo europeo, fin qui. Se non altro per ragioni di bilancio. Ma tutt’intorno ci si è cominciati a muovere con una disinvoltura degna di miglior causa. Fino all’approdo alle sponde del populismo, che non sembra contemplare più di tanto il valore delle alleanze. Salvo magari fare eccezione per i propri simili, di tutti i colori e tutte le etnie politiche del mondo.
Così ora forse è l’Ucraina che ci riporta al punto di prima. E ci fa precipitare nuovamente in un contesto mondiale assai turbolento e tale da decidere le nostre sorti perfino drammaticamente. Peccato che noi nel frattempo ci siamo abituati alla variabilità delle situazioni e forse anche delle alleanze, e alla fantasia dei racconti e delle velleità. Illudendoci di poter fare a modo nostro ora che finalmente sembravano – sembravano – essersi allentati i vincoli del passato.
La realtà è che quei vincoli a questo punto sono semmai ancora più stretti. E la nostra possibilità di allentarli minimamente resta ancora strettamente legata alla nostra capacità di riconoscerli e rispettarli. Non sembri un gioco di parole. In passato i grandi partiti dell’epoca potevano affrontare qualche disputa nel recinto della loro metà campo perché non facevano mai finta che quel recinto non esistesse. Anzi. Una gran parte delle loro energie venivano spese nel cercare di far capire agli alleati più ingombranti che nel fare a modo nostro non si voleva cercare una via di fuga ma semmai trovare la traccia nascosta di un inedito percorso comune.
È quella dialettica che andrebbe ora ricostruita. Cercando di tenere insieme la realtà e l’immaginazione, la lealtà e il realismo. Onorando gli impegni, magari dopo averli rinegoziati. E prendendo tutto il tempo che serve per cercare di cambiare qualcosa. Dato che anche ai nostri giorni nulla cambia mai troppo in fretta. |