L’innocenza di Alex

L’innocenza
di Alex
irene famà
«Avrei preferito morire piuttosto che ammazzare mio padre. L’ho detto sin dal primo giorno e continuo a pensarlo». Ma quella sera, suo papà «era incontrollabile, con gli occhi fuori dalle orbite. Ci avrebbe uccisi, il mio istinto lo ha solo anticipato».
Sguardo basso. Con le dita della mano destra Alex ticchetta il polso sinistro. Ogni volta che la camera di consiglio accenna ad aprirsi alza gli occhi. Ma i giudici non arrivano e così torna ad immergersi nei suoi pensieri. Quella di ieri, va da sé, per Alex Pompa è stata la giornata più lunga. Quei minuti, ventidue, seduto in aula in attesa della sentenza, i «più difficili». La madre ha le mani giunte, il fratello le braccia conserte. Quando la presidente della Corte d’Assise legge il dispositivo, «assolto», Alex sospira. Sorride, ma non esulta. Non nasconde il sollievo e non nasconde nemmeno le difficoltà: il passato è impossibile dimenticarlo, le 34 coltellate, la violenza che ha respirato per anni.
«Non ho avuto ancora il tempo di metabolizzare» dice. Quasi a scusarsi di non trovare un modo più preciso per descrivere il suo stato d’animo. «È stata una giornata pesante, mi sento estraniato. Non me l’aspettavo. Vorrei solo andare a casa». Una casa che ora ha un significato diverso. Alex abbraccia la mamma, abbraccia Loris. Fatica a trovare le parole. È la fine di un incubo? «Non saprei come rispondere». Quell’incubo lui l’ha dovuto rivivere più e più volte in Tribunale. Ha dovuto ascoltare di nuovo le registrazioni delle violenze, quelle violenze che ha sempre avuto davanti agli occhi, che tutti i giorni sentiva risuonare nelle orecchie. Ha dovuto ripercorrere la sera del 30 aprile 2020, i suoi movimenti, le sue azioni. «Parlare alla Corte, ascoltare gli audio sono stati due momenti molto difficili da affrontare. Però ce ne sono stati tanti altri. Non so cosa dire, in questo momento mi sento veramente estraniato. Anche questo, forse, è uno dei momenti più difficili della mia vita. Ma non riesco ancora a comprenderlo a pieno». Si prende un momento per sé, in disparte: «Per un attimo mi sono sentito oppresso». Tutti chiedono, tutti lo abbracciano, tutti gioiscono. Mamma e fratello, l’avvocato difensore, alcuni amici, alcuni professori, Rinaldo Merlone, l’ex preside dell’alberghiero Arturo Prever di Pinerolo. Nessuno di loro l’ha mai lasciato solo. Nemmeno gli insegnanti delle superiori, che dopo la tragedia si erano battuti perché Alex potesse continuare gli studi e sostenere l’esame di maturità.
Lui ha bisogno di qualche minuto: imputato e vittima, finito al centro di una storia in cui i confini tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato sono stravolti. La sua premura è quella di ringraziare la Corte. «Lo dico sinceramente, ci tengo molto. Non è un atto dovuto. I giudici hanno capito quello che io e la mia famiglia abbiamo vissuto. Hanno capito quello che è successo, ci hanno ascoltati e hanno compreso. Voglio ringraziarli di cuore».
Ora la quotidianità non sarà più una concessione dei giudici. «Potrò andare a cena con la mia famiglia, allenarmi a calcetto con mio fratello. Potremo anche andare insieme a vedere l’Inter». Senza la paura che ha segnato i suoi vent’anni e senza bisogno di autorizzazioni. Per frequentare l’università, Scienze della comunicazione, non avrà più bisogno di un permesso: «Per ora sta andando bene. A febbraio ho gli esami, speriamo». Per andare alle lezioni non dovrà più seguire un percorso concordato. «Assolto – aggiunge – Devo ancora metabolizzare.
Intorno alle 19 Alex, mamma Maria e Loris escono da Palazzo di Giustizia. Questa sera? «Alla cena pensa Alex – scherza il fratello – È lui quello bravo a cucinare». Prove di una normalità che in quella famiglia è sempre stata negata, stritolata dalla violenza.
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