Di chi parlava Gramsci? Chi indendeva quando scrisse che l’illusione è la gramigna più tenace della coscienza collettiva: la storia insegna, ma non ha scolari? Quali alunni aveva in mente? Noi, forse? Probabile. Quelli che si fecero traghettare dall’altra sponda del Lete, irretitidallo skyline della Metropolis del Capitale.Smemorati che non sanno più granché dei valori che il sangue aveva infuso nell’anima. Quelli delle partite online a PES e delle tredici sfumature di Iphone, dei matrimoni senza promessa e dei gel ritardanti, dei fantasmini salvapiedi e delle creme antiage. Noi e non altri, quelli che facevano sega alle lezioni che la Magistra vitae dava a titolo gratuito, confidando nel Lucignolo di turno, pupazzi di Collodi.

“Lì non vi sono scuole, lì non vi sono maestri, figurati che le vacanze d’autunno cominciano col primo gennaio e finiscono con l’ultimo di dicembre”.

E la Storia, guardandoci, non può che far spallucce. Cavoli vostri – pare mormorare – non dite che io non ve l’avevo detto. È dunque tardi per recuperare gli insegnamenti persi oppure si è ancora in tempo? A guardarsi attorno, in pochi si prendono la briga di domandarsi da quali lidi provenga lo tsunami che ci ha presi in pieno. Poiché nulla dell’inventiva persecutoria che l’orco brandisce, come clava, contro il debole, non è già apparsa in qualche meandro storico, non è stata già concepita su qualche scranno disdicevole. I visionari, i dissociati, i complottisti – così la moda del giorno addita quanti uniscono i puntini della Storia Enigmistica.

Quinto Decio fu il volto di uno di quegli orchi affamati. Al suo estro devono essersi ispirati il Drago e la claque dei dragoncelli, quando pescavano dal cilindro la perla nera, altroché verde, del gran pass. Execrabile animal, (bestia esecrabile), per Lattanzio. Restitutor sacrorum (restauratore delle cose sacre) per gli adulatori. È così che riporta l’epigrafe funeraria di Decio, dissotterrata nel ’52. Poiché – consolazione imperitura – qualsiasi onnipotenza umana, alfine, porta la sua deadline.

Nel III secolo, la comunità dei cristiani era una realtà del mondo imperiale, arrivata a convincere plebei e patrizi, squattrinati e benestanti, minando i valori tradizionali saldati nel mos maiorum.Momentaneamente sopita – scriveva già Tacito –questa esiziale superstizione di nuovo si diffondevanon solo per la Giudea, focolare di quel morbo, ma anche a RomaIl primo a prendersi la briga di occuparsi di loro, era stato Nerone, l’attore mancato. Ne avrebbero seguito le ispirazioni altri come lui, ciascuno con accorgimenti propri, ciascuno mancante in quel qualcosa di buono che avrebbe contenuto le ambizioni egotiche di uno sterminatore di masse. Domiziano, Traiano, Marco Aurelio, Settimio Severo, Massimino Trace, il nostro Decio, Valeriano, Aureliano, Diocleziano. Da principio vennero arrestati coloro che confessavano – continuava l’autore degli “Annales” – quindi, dietro denuncia di questi, fu condannata una ingente moltitudine, non tanto per l’accusa dell’incendio, quanto per odio del genere umano. Svariate le accuse contro di loro, la più nota riferita all’incendio che per sei giorni consumò l’Urbe. A guardar bene, tali accuse non erano distanti da quelle che i tedeschi (e non solo loro) avrebbero mosso agli ebrei nella prima metà del Novecento. Tracollo dell’economia, congiura, rialzo dei prezzi, vizi sessuali, sfighe varie, carestia, antropofagia. Più il generico odio del genere umano di cui sopra. Ma due soprattutto, al tempo dei Cesari, le infamie che non si poteva lasciar correre a questa gente: ateismo e lesa maestà. Contraltari del rimprovero che vedi mediaticamente abbattersi su chi scansa il siero battesimale della religione universale e disubbidisce al sinedrio pandemico che ne ha garantito la sacralità.

Essendo Decio il trentaseiesimo, in ordine di successione imperiale, e poi non così tonto come l’espressione sul suo busto farebbe ipotizzare, aveva tutti gli elementi per comprendere un fatto. E cioè che più questi cristiani li si attaccava platealmente, con ogni accorgimento scenico del caso – le damnationes ad bestias o le esecuzioni in serie sulle vie consolari – più gli si faceva un favore. Di contro, l’autorità imperiale ne usciva con un colpo per l’immagine. Le opposte prospettive di un Tertulliano e un Tacito, menti sopraffine, una cristiana, l’altra pagana, colgono all’unisono il nocciolo della situazione. Il sangue [dei martiri] è il seme dei cristiani, fa il primo. Mentre il secondo precisa come

“benché si trattasse di rei, meritevoli di pene severissime, nasceva un senso di pietà, dato che venivano uccisi non per il bene comune, quanto per la ferocia di un singolo uomo”.

Così Decio, ponderati i suggerimenti, raccolse attorno ai triclini la sua corte di tirapiedi e leccaculo ad ampio range politico, e con quello sguardo a mezz’asta più del rettile che non del romano, propose l’idea d’un libellus. Un che? – dovettero chiedergli col rispetto dovuto all’autorità di un sovrano. Libellus, documento da rilasciare a ogni singolo civis romanus, onde certificarne la fedeltà allo Stato – spiegò lui. E per attenersi alla forma, nonostante il potere assoluto del quale disponeva, la cosa fu varata a mezzo di un editto. Correva l’anno 250 dopo Cristo, ma, come in un wormhole, quel lembo del tempo s’è connesso con il nostro. Nel Ddl dei cari antenati si ordinava ai cittadini dell’Impero di presentarsi davanti a una commissione per officiare un sacrificio propiziatorio, in gergo supplicatio. Il rifiuto a presentarsi, nei giorni delle udienze della commissione, siglava un’ammissione di colpa da pagare dapprima col carcere e la tortura. Poi, se renitenti, con la pena di morte.Gesto di buona volontà con cui onoraregli dèi, sia quelli da sempre ritenuti celesti, sia quelli che i loro meriti abbiano posti in cielo, Ercole, Libero, Esculapio, Castoro, Polluce, Quirino – come riporta Cicerone nel “De legibus”.

Bastava che ti mettessi in fila per un hub sacrificale, offrissi incenso all’Imperatore, arrostissi un piccione o un coniglio sul braciere sacro, ne mandassi giù un boccone ed il pass ti veniva rilasciato. Lapsus, il libellus.

“Io, sempre, senza interruzione sacrificai agli dei e adesso alla vostra presenza, in conformità con quanto prescrive l’editto, ho fatto un sacrificio della carne della vittima sacrificata”.

Così riportava la pergamena che ti saresti messo in tasca. Così, con il libellus, avevi accesso alle terme, al teatro, allo stadio, alla popina. E perfino al lavoro. A proposito di lapsus, erano propriamente detti lapsi (dal verbo labi, scivolare) quanti fra i cristiani cedevano al ricatto e, per sopravvivenza civile, onoravano gli dèi pagani. Cosa che si sarebbe riproposta nel Giappone del secolo XVII, coi kirishitan dagli occhi a mandorla costretti a calpestare le loro immagini del Messia, della Vergine, dei Santi, per giuramento al divino Imperatore.

Insomma, la persecuzione di Decio fu geniale, oltre che la prima sistematica contro i cristiani. L’editto non li chiamava direttamente in causa, ma li forzava ad uscire allo scoperto, a farli rivelare in pubblico. Solo allora il braccio della legge li toglieva di mezzo. Si creò, così, una spaccatura all’interno della comunità dei fedeli, fra quanti apostatavano e quanti, per prudenza, o fuggivano dalle città oppure, restandovi, dovevano adottare un profilo basso, molto basso. Al tempo in cui non potevi dire la tua sui social digitando a questo modo <4xx1n0 (vaccino) per non essere bannato, né i gruppi chiusi Telegram ancora venivano in soccorso, i perseguitati ricorrevano al linguaggio in codice dei simboli dell’ancora, della fenice, del pellicano, del monogramma IX, del monogramma IH, dello staurogramma. E soprattutto dell’ICHTHYS (pesce in greco), acronimo con le iniziali di “Iesous Christos Theou Yios Soter”, ossia “Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore”.

Luogo privilegiato degli incontri di questi duri a morire erano abitazioni private in cui pregare, officiare messe, ricevere sacramenti, farsi coraggio, scambiarsi vedute. Le cosiddette domus ecclesiae. Gli ospiti erano selezionati con attenzione ma ci scappava sempre la talpa, il delatore, il seguace dell’Iscariota più che del Nazareno. Il tale o la tale che vendeva l’indirizzo della domus ai legionari imperiali, i quali sfondavano la porta e – come diciamo a Roma – “si bevevano” il gruppo di fedeli. Quando il Cristo raccomandava ai suoi di essere prudenti come serpenti e puri come colombe, non presagiva pure questo? Traduci: rega’, occhio a chi fate entrare in casa. Ma si sa che uno le cose non le intende fintantoché non le sperimenta dal vero, finché non ci si scortica la pelle. Il che, in ultimo, riporta direttamente all’esperienza personale del sottoscritto, quando in un cenacolo di cattolici Vetus Ordo (leggi rito tradizionale latino) s’è visto presentare una tale che si spacciava per biologa della Sapienza. Scoprendo, a qualche giorno di distanza, come la tizia era in realtà una penna a servizio di TPI; la quale, nonostante l’aspetto un poco la tradisse, aveva abbindolato quel gruppo di tradizionalisti in buona fede, filmandoli e registrandoli di nascosto, in ambiente privato, per sparare poi uno scoop titolato “I no vax di Dio”, che dire tendenzioso è poco.

Testa illustre che cadde fu quella di Fabiano, Pontefice figlio della gens Fabia, uno dei clan patrizi arcaici che Tito Livio riconduce al momento della Fondazione. Roma si ritrovò senza un Papa. Durò in tutto 18 mesi di intensa passione. Poi, per grazia divina, una pioggia di strali barbari crivellò l’Imperatore in una palude dei Balcani. Il libellus, padre del gran pass, finì in cantina. Ma il guaio è che non tutti lasciano le cantine ad ammuffire.