La gara per il dopo Salvini
di Ezio Mauro
A lla fine anche Matteo Salvini si scopre vittima del virus, fortunatamente non dal punto di vista sanitario, ma politico, come se la pandemia avesse indebolito l’organismo della Lega isolando il suo Capitano in una sorta di quarantena immateriale: che lo tiene separato dai problemi del Paese costringendolo a seguire questa fase di emergenza 2.0 dal balcone delle occasioni perdute, senza più la capacità di scendere in campo da protagonista.
Questo è il vero significato del voto del Senato che manda l’ex ministro dell’Interno a processo per sequestro plurimo aggravato di persona, dopo che la scorsa estate ha impedito lo sbarco di 164 migranti dalla Open Arms bloccata al largo di Lampedusa.
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segue dalla prima pagina A nche se i due processi (c’è anche quello per la nave Gregoretti) trattano reati con pene superiori ai 10 anni, e in caso di condanna aprono la strada all’ineleggibilità, quel che sta accadendo a Salvini suona all’opinione pubblica non come l’inizio di una vicenda giudiziaria, ma come l’esito di una parabola politica che sta consumando la fase declinante del suo tracciato sotto gli occhi di tutti.
Salvini ha i voti, sia pure in continuo deperimento, e questa in democrazia è certamente la cosa che conta. Ma sembra non avere più l’anima per rappresentarli, il cuore per investirli in un rapporto vitale con la sua base popolare di riferimento, le idee per spenderli in un progetto politico che rimetta la Lega al centro del Paese. Com’è accaduto fino a un anno fa, quando la richiesta dei pieni poteri ha rappresentato insieme la convinzione di poter scuotere l’albero della democrazia italiana, come momento culminante di un’avventura politica, e il punto di rottura, perché la dismisura ha deformato quella stessa avventura: rendendola pericolosa in quanto incapace di accontentarsi del potere legittimo, e alla ricerca di una quota supplementare di potestà irregolare.
Da tutto questo deriva una forte difficoltà da parte del leader della Lega a leggere il Paese oggi, in una fase delicatissima della sua trasformazione. È come se fosse saltata la sintonia, la capacità di interpretare quel deposito misto di sentimenti e risentimenti del cittadino medio inappagato, spaventato dalla mondializzazione, spaesato dall’indebolimento dei fili identitari che legano insieme una comunità, spossessato della capacità di governare i fenomeni globali che si muovono negli spazi immateriali dove oggi tutto si decide, compreso il suo ruolo e il suo destino, come se fossero nella disponibilità altrui.
Questo sentimento di perdita di cittadinanza, questo senso di solitudine repubblicana che forma il nucleo incandescente del populismo nazionalistico non si è certo dissolto. Ma la fase eccezionale che stiamo vivendo lo ha proporzionato e gerarchizzato, mettendolo in scala con altri problemi. Quel che Salvini non ha capito, in sostanza, è che la crisi pandemica non ha soltanto terremotato la ricchezza delle nazioni con il pil americano che cala del 32,9 per cento, la produzione industriale con bilanci in rosso pauroso, l’occupazione con l’Istat che registra quasi 600 mila occupati in meno in Italia rispetto allo scorso anno.
In realtà il virus ha sconvolto un altro mercato: quello della paura, dove tenevano banco con profitto i populisti di ogni specie, perché davanti al timore reale della morte diffusa da un agente sconosciuto, le paure strumentali, ideologiche e politiche hanno ridotto naturalmente la loro presa e la loro capacità di condizionare gli orientamenti individuali e collettivi. Non solo: una minaccia che si rivela universale e che attacca per la prima volta l’insieme del genere umano riduce necessariamente l’egoismo, le differenze e le diversità e fa crescere una reazione spontanea di solidarietà nell’inermità.
L’incitamento alla rabbia, la coltivazione del risentimento, la privatizzazione delle tutele, la gelosia del welfare sembrano improvvisamente moneta politica fuori corso che il mercato fatica ad accettare perché cerca rimedi ad angosce reali, che riguardano addirittura la sopravvivenza, e non ha tempo per angosce artificiali. Aggiungiamo che il Recovery Fund trasforma l’Europa da problema in risorsa di salvezza, togliendo ai nazionalisti un bersaglio polemico abituale in più, e cancella così un altro fantasma ideologico agitato dal nazionalismo.
Per la destra poteva essere l’occasione storica di riformulare il suo vocabolario, dunque la sua cultura, i fondamenti della sua particolare egemonia: e naturalmente di conseguenza il suo rapporto col cittadino da un lato, con lo Stato dall’altro.
Con tutta evidenza non è arrivata preparata a questo compito, ancora una volta non è pronta. E dal mondo intellettuale nessuno glielo ha chiesto.
Berlusconi si accontenta come sempre di pensare in proprio, non è più il demiurgo della coalizione e in ogni caso non rinuncerà mai alla sua anima antipolitica, perché è almeno metà della sua natura. Meloni sente che la superficie complessiva dell’alleanza scricchiola, ma impegnata nella sua opa silenziosa sull’elettorato leghista non avverte l’obbligo di andare oltre se stessa. Salvini è in playback, torna a passare dal Senato al Papeete quasi in un inseguimento scaramantico della fortuna perduta, e la promessa-minaccia che tra un anno ci tornerà da premier sembra più un esorcismo che una profezia. Come dimostrano gli studi di Ilvo Diamanti su queste pagine, è fuori sincrono, e capisce che dalla Open Arms ai camici di Fontana qualcuno si prepara a presentargli il conto politico complessivo: da cui non potrà mancare il saldo in sospeso dello scandalo indimenticabile – perché mai spiegato – del petrolio russo, con le percentuali milionarie e le voci registrate dei suoi uomini che raccordano la povera politica estera dell’Italia con i rubli clandestini per la campagna elettorale.
Dunque ci sono i voti, in movimento, ma non c’è una leadership sicura e un pensiero egemone. Ed è evidente che appena passasse da quelle parti un leader capace di impersonare una destra normale (non una destra che piace alla sinistra: ma un moderno partito conservatore europeo, come non abbiamo mai avuto) si porterebbe via il banco. Per uomini di governo come Zaia, e per la terza generazione della destra, il concorso è aperto.