«UN SIMBOLO DI RINASCITA: VORREI CHE FOSSE AMATO»

di Giangiacomo Schiavi

Il progettista Renzo Piano

«È stato davvero un cantiere straordinario. Qui c’è la mia memoria: mio padre mi portava in pellegrinaggio al viadotto»

 

R enzo Piano, architetto e senatore a vita, la sua idea di ponte è diventata un progetto e il progetto oggi è una sintesi della genovesità, essenziale, sobrio, un lungo nastro illuminato da 43 vele di luce in ricordo delle 43 vittime. Due anni fa aveva detto: bisogna ricostruire presto, ma senza fretta. Oggi si scrive che il ponte di Genova rappresenta un modello, un miracolo italiano…

«Io credo poco ai miracoli…»

Forse è la prova che quando si vuole, si può fare…

«Questo ponte più che un miracolo è figlio di una tragedia terribile, ed è il risultato di un lavoro senza sosta in un cantiere dove c’è stata grande collaborazione e alta competenza».

Possiamo dire: un’alleanza insolita per le grandi opere pubbliche in Italia?

«Chi ha lavorato qui si è sentito toccato da un compito speciale, si doveva ricucire una grande ferita e rimettere in connessione due parti di città: ne è nato un grande cantiere, professionale e umano».

Oggi questo ponte è anche la memoria dei disastri che si dovrebbero evitare.

«Un ponte non deve crollare, quando succede è un trauma per tutti, è un legame che si spezza nell’immaginario collettivo. Qui ci sono state 43 vittime, centinaia di sfollati, Genova tagliata in due… Terribile».

Per questo ha detto che il ponte dovrà durare mille anni?

«Bisogna dare un significato a quello che si fa, anche se nessuna delle opere fatte dall’uomo è destinata a durare così a lungo. Certe cose però possono durare solo se sono amate, accudite, oggetto di affetto. Soltanto così si può resistere nel tempo. Io vorrei che questo ponte fosse amato».

Aveva mai progetto un ponte?

«L’avevo già fatto a Sarajevo, a Chicago, in Giappone. Tutta la mia vita di progettista è stata quella di costruire ponti metaforici, come scuole, musei, biblioteche, università, sale da concerto… Ogni luogo di vita e di incontro è un ponte. È ovvio che questo di Genova è diverso da tutti gli altri: è un segno di rinascita».

È vero che durante la costruzione andava a vederlo da solo, la domenica mattina?

«Vado spesso in cantiere da solo, ma a Genova questo momento intimo si è intrecciato coi ricordi: sul ponte ho ritrovato la mia memoria, le domeniche con mio padre, quando mi portava in pellegrinaggio alla Certosa, un quartiere amato, nobilmente operaio, orgoglioso e tenace proprio come Genova».

Le piaceva il ponte Morandi?

«Lo trovavo bellissimo. Per tanti di noi era quasi un simbolo. Da giovane architetto, quando tornavo in auto a Genova da Milano aspettavo di passare lì per ritrovare la luce, il mare, il Mediterraneo…».

Il suo progetto l’ha fatto diventare simile alla chiglia di una nave…

«È un ponte che gioca con la luce, le sue pile altre quaranta metri hanno una forma ellittica che viene accarezzata da questa luce. Ho pensato a un vascello che rimanda alla scocca di una nave e aiuta a scoprire la luce del Mediterraneo: è la luce dell’accoglienza».

Due anni fa disse: è un brutto momento quando crollano i ponti e si alzano i muri…

«Confermo. È bello poter dire che si ricostruiscono i ponti e si abbattono i muri. Ma c’è ancora molto da fare. Certi lutti non si dimenticano, non si possono dimenticare. Ci vuole tempo».

Ci sarà un’area destinata alla memoria?

«I parenti delle vittime avranno un luogo di meditazione disegnato da Stefano Boeri. Un parco che vive e resta impresso nella nostra coscienza».

Lei è abituato ad appuntare su un taccuino quello che vede e lascia un segno nella sua memoria. Che cosa ha scritto per questo ponte che ha progettato per la sua città?

«La parola grazie. Per la solidarietà ad ogni livello che ho sentito nel cantiere. Sul pannello d’acciaio del ponte ci saranno impressi i nomi delle 1.184 persone che hanno lavorato qui, tutte animate da uno spirito straordinario, commovente, di grande partecipazione».

I familiari dopo i lutti aspettano ancora risposte…

«Hanno perso le persone più care, le loro case, i ricordi una vita. È difficile rimuovere il peso di questa tragedia. Ma questo ponte non nasce per dimenticare, nasce per fare in modo che certi disastri non accadano più».

È una lezione che rimanda al resto del Paese?

«Tutta l’Italia ha bisogno di un lavoro di ricucitura e di rammendo per strade, ferrovie, scuole, ponti, ospedali. Servono rammendi idrogeologici, sismici, riforestazione, manutenzione… Un grande progetto come questo sarebbe ossigeno direttamente in vena al nostro Paese, meraviglioso e trascurato».

Era il suo progetto lanciato cinque anni fa. Un piano Marshall per la manutenzione di edifici pubblici e territorio. Che fine ha fatto?

«È da un pezzo che non se ne parla, è rimasto inascoltato. Ma io continuo dal Senato il mio lavoro sulle periferie e il rammendo urbano. Bisogna remare sempre, guardando avanti, anche se la corrente ti spinge indietro».

Genova in questo momento ha ricominciato a remare?

«Genova è resiliente, silenziosa e forte, è una citta marinara stretta tra il mare e la montagna, abituata a resistere alle avversità e costretta a navigare anche quando le condizioni sono difficili. È una nave, a modo suo».

E questo ponte un po’ le somiglia…

«L’ho pensato proprio così. Un ponte che fa bene il suo mestiere, attraversa una città, unisce due vallate. C’è dentro di tutto: silenzio, luce, vento. È la scoperta di Genova, del mare. È un benvenuto alla città».

 

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