TOMMASO CERNO
Non è l’eterno ritorno, è l’eterno inganno. Contro ogni legge di gravità politica, Silvio Berlusconi sta di nuovo in piedi. Si è ripreso il campo, quel campo dove è andato in scena, nell’ultimo quarto di secolo, uno dei più grandi e macabri spettacoli politici del dopoguerra. C’è da chiedersi come faccia quel signore che viene dalla fine del tempo democratico a essersi rialzato dopo quel che gli è successo. Non basta a spiegarlo la sua straordinaria capacità di campaign, le tre elezioni vinte. Non basta perché più di quello pesa il triplice fallimento da uomo di governo, che lo portò a lasciare Palazzo Chigi firmando le sue dimissioni sotto i colpi dello spread.
No, la spiegazioneva cercata altrove. Non sta dentro quel corpo mutato e indurito dal trucco. Sta nel deserto del campo avverso, sugli spalti vuoti della sinistra. Un deserto che il Pd pagherà per anni, dopo avere retto governi, propri e impropri, da Mario Monti in avanti, sotto l’insegna retorica della responsabilità, agitando l’amor di Stato come ragione della propria azione politica. Invece le debolezze della sinistra, le fratture interne, la banalità del gergo incapace di capire le sfide della crisi globale hanno prevalso. E la sinistra non ha incassato alcun dividendo elettorale dall’azione di governo. Per questo è tornato Berlusconi, semplicemente parlando all’istinto di destra che c’è in Italia — perché c’è ed è pure tanto — e che c’è nel mondo.
L’alchimista Silvio è capace di tradurre quelle formule oscure che spaventano America ed Europa qui da noi, collocandosi in un luogo politico indefinito, che veleggia in barba alle onde fra populismo e Trump. Eppure lui, con la solita faccia tosta del gaffeur, illude il Paese. Si spaccia per ciò che non è, il padre dei moderati che s’è fatto ormai nonno. Una bugia che Berlusconi, con il tocco permanente del finto dilettante, fa credere alla gente, quando invece se c’è una cosa che non ha voluto né saputo fare in questi anni è stato fondare una destra conservatrice in Italia. Qualcosa di cui ci sarebbe stato bisogno.
Ora che il guaio è fatto, la sinistra fa a Berlusconi un attraente regalo di bentornato: il Rosatellum. Sarà lui a beneficiarne, lui e il suo equivoco politico permanente. Quello che gli consentì nel 1994 di tenere insieme il nazionalismo di Fini e il secessionismo di Bossi e che oggi mostra ancora quegli stessi limiti, da una parte si erge a presunto argine dei populismi, dall’altra fa l’imitatore dei sovranismi alla Le Pen e alla Salvini. Perderanno invece voti gli altri: Grillo che si vuole solo e che respinge le alleanze, perché si nutre di castità partitica; il Pd che, a parole, apre alle coalizioni allargate ma poi non le sa fare, finendo per frantumarsi in mille pezzi.
Questi nodi non sono sciolti e sono forse l’unica chiave per cercare un pertugio, un passaggio per fermare la destra. Perché se Berlusconi, finora, è sempre stato capace di nascondere questo difetto di fabbrica durante le campagne elettorali, celare cioè le contraddizioni salvo poi ritrovarsele tutte riproposte una volta che sedeva al governo, stavolta è a un bivio: non sa con chi governerà perché le alleanze si chiuderanno formalmente dopo il voto. La domanda da farsi, dunque, è: che carte ha davvero in mano? Può fare due scelte: governare con Salvini, che significa mutare la natura del segretario leghista da animale anti-governo tutto ruspe e distintivo in diligente e addomesticato ministro di un esecutivo targato Forza Italia. Oppure rovesciare il tavolo e guardare verso Renzi. Ma non è così facile, nemmeno per un mago dell’equivoco come lui, far digerire all’ex rottamatore della sinistra quel caravanserraglio di rottamati della destra che fu. Ecco il limite di questo ritorno di Berlusconi. Con lui ritorna anche il suo deficit politico e culturale, torna il passato, l’eredità dei suoi conflitti. Tornano i nodi pratici del berlusconismo d’antan. Primo fra tutti la giustizia, tema irrisolto. Non è affatto a orologeria, è dovuto a questioni mai chiarite come il ruolo di personaggi chiave della sua ascesa negli anni Novanta, quel Marcello Dell’Utri in carcere per concorso esterno alla mafia e quel Cesare Previti condannato per reati pesantissimi. Un peccato originale, che inquina il pozzo della destra, sul quale Berlusconi non ha la coscienza a posto e non ha mai rendicontato al Paese. Fino all’estrema contraddizione: essere incandidabile in virtù di una legge votata dal suo stesso partito, la legge Severino, e fare finta che non esista. Anzi, usarla per fare la vittima, per dirsi oggetto di una campagna politica e giudiziaria ordita ai suoi danni da non si sa bene chi, la cui origine sta invece tutta nelle azioni e nelle omissioni del Berlusconi Silvio. In veste prima di imprenditore legato alla politica, poi di politico legato alla sua stessa impresa.
Lo spazio per fermarlo è lì. Se la sinistra non passerà da questo pertugio, la campana che sentiamo suonare rischia di suonare a morto per Renzi e per il Pd. Perché il Cavaliere sa evocare il campo. Ed è tornato a stare in piedi da solo, come Voldemort di Harry Potter riprende carne e forma, pronto a giocare per l’ultima volta su quel campo. Mentre quelli che vediamo a sinistra non sono campi democratici, ma sono orti e orticelli. Dove ognuno semina la sua pianta. Ignaro che sta per venire il grande freddo del Nord. E tutto gelerà.