L’avevamo lasciato, nella scena finale di BlacKkKlansman (sei candidature all’Oscar e la statuetta per la sceneggiatura originale nel 2019), con le immagini di repertorio della manifestazione dei suprematisti e neonazisti di Charlottesville dell’agosto 2017: l’omicidio dell’attivista Heather Heyer, le dichiarazioni di Trump e di David Duke, già leader del Ku Klux Klan, quindi la Stars and Stripes capovolta e ingrigita. Poi, una settimana fa, ecco il video 3 Brothers, che collega l’assassinio di Radio Raheem nel suo Fa’ la cosa giusta (1989) a quelli di George Floyd ed Eric Garner e si domanda: “Will History Stop Repeating Itself?”.

La risposta è no, la Storia continua a ripetersi, ma Spike Lee non è da meno: il suo nuovo lungometraggio Da 5 Bloods, che arriva domani su Netflix, associa al trauma bellico del Vietnam l’ingiustizia razziale ai danni degli afromericani. Lo apre Muhammad Ali, che nel 1978 si rifiuta di andare a combattere i Viet Cong: “La mia coscienza non mi permette di sparare a un mio fratello. E perché dovrei sparargli? Non mi hanno mai chiamato ‘negro’”; lo chiude Martin Luther King, che il 4 aprile 1967, esattamente un anno prima di essere ucciso, si dice “convinto che l’America non sarà mai libera o salvata da se stessa se i discendenti degli schiavi non saranno liberati dalle catene che ancora li legano”.

In mezzo Lee utilizza il canovaccio del film d’avventura per raccontare il sodalizio immarcescibile ma problematico di quattro veterani, quattro fratelli neri che ritornano nel ‘Nam alla ricerca delle spoglie del quinto, “il nostro Malcolm (X, ndr) e il nostro Martin (Luther King, ndr)” Stormin’ Norman interpretato dal Black Panther Chadwick Boseman, e di un tesoro in lingotti d’oro. Marvin Gaye canta l’antibellica What’s Happening Brother, i Chambers Brothers pretendono che Time Has Come Today, e sì, Spike ha un timing perfetto. I riot che hanno seguito il soffocamento di Floyd abitano il fuoricampo interno, perché il regista ha saputo, si fa per dire, giocare d’anticipo: se Paul (Delroy Lindo, super) e gli altri bloods si batterono per un’America che li opprimeva da New York a Los Angeles, più di qualcosa non è cambiato. Il disturbo da stress post-traumatico di Paul ha un acronimo inedito ai Rambo del grande schermo: Maga, ovvero il trumpiano Make America Great Again stampigliato sul berretto rosso. Quel Trump apostrofato “pagliaccio di un reality show”, “figlio di puttana”, “membro del Ku Klux Klan nello Studio Ovale” è il nemico, ma Lee guarda alle vittime, a chi non respira più. Per tutti, i George, gli Eric, i Raheem, parla il suo Norman, e la preveggenza fa accapponare la pelle: “Ogni volta che apro la porta di casa vedo i poliziotti che girano nel mio quartiere e sembrano pronti a colpire. E sento che per loro non valgo niente”.