Theodor Wiesengrund Adorno (1903-1969) nutriva delle forti perplessità rispetto alle parole pronunciate oralmente. Lui – uno dei big della filosofia del Secolo breve, padre, con Max Horkheimer, di una delle più significative avventure culturali novecentesche, la Scuola di Francorte – era un deciso fautore della massima latina «verba volant, scripta manent». E, dunque, diffidava delle registrazioni e delle trascrizioni di quanto detto negli incontri pubblici, temendo che la complessità potesse venire sacrificata, o che il senso finisse travisato (o adulterato, e si sa quanto la manipolazione fosse al centro delle meditazioni degli intellettuali francofortesi). Ma così non è stato per una sua preziosa conferenza inedita, ora tradotta da Silvia Rodeschini per Marsilio – Aspetti del nuovo radicalismo di destra (pp. 92, € 12; postfazione dello storico e saggista Volker Weiss) –, che al suo esordio nelle librerie l’estate scorsa in Germania ha venduto di botto la bellezza di 70 mila copie.
Queste parole si collocano all’antitesi delle «considerazioni inattuali» che caratterizzano una certa tipologia di speculazione filosofica. E vengono, invece, estremamente (e malauguratamente) d’attualità anche nell’Italia post-lockdown delle manifestazioni di estrema destra e delle marce neofasciste sul Circo Massimo di pochi giorni fa. Adorno tenne la conferenza all’Università di Vienna il 6 marzo 1967, su invito dell’Unione degli studenti socialisti dell’Austria; e le sue riflessioni scaturivano da un tema politico di stretta attualità in quella fase. L’autore dei Minima moralia e (con Horkheimer) della Dialettica dell’Illuminismo si era dato l’obiettivo di spiegare al pubblico austriaco la repentina ascesa, in seno alla Repubblica Federale Tedesca, dell’Npd. Ossia il Partito nazionaldemocratico di Germania, fondato nel ‘64, la formazione di orientamento neonazista diventata la principale del campo dell’estrema destra, e che, a sua volta, negli anni più recenti, ha dovuto assistere alla rapida crescita dei consensi di un competitor, l’Afd (Alternativa per la Germania).
L’analisi adorniana, naturalmente, va contestualizzata in maniera adeguata sotto vari profili – dall’unicità (questa era la tesi dei francofortesi) del regime hitleriano, preparato dal crollo della Repubblica di Weimar, come punto di non ritorno vissuto dal popolo tedesco, fino alla peculiarità del clima degli anni Sessanta sfociato nella rottura del Sessantotto. Nondimeno, proprio le preoccupazioni personali del filosofo e il lavoro multidisciplinare che l’Istituto di ricerche sociali di Francoforte aveva continuato a fare nel dopoguerra intorno al nazismo stanno alla base di una meditazione sempre valida sul nucleo duro che anima in profondità (e con costanza) i movimenti di ultradestra.
Era dai metodi di indagine sociale dell’Istituto, e dalla loro ibridazione con le ricerche molto empiriche che si svolgevano in quegli Stati Uniti dove trascorsero l’esilio molti dei suoi componenti, che derivava l’idea di una spaccatura della società tra un’opinione pubblica e un’«opinione non-pubblica». Qualcosa di comparabile, nella nostra età digitale e dei social network, alle bolle e alle camere dell’eco, per cui la sfera pubblica si ritrova accanto un circuito dove circolano visioni antitetiche e convinzioni irriducibili a quelle ufficialmente esistenti nel discorso pubblico. Precisamente qui alligna la «latenza del fascismo», pronta a riaffiorare non appena si disarticola e infragilisce l’istanza superiore che la comprime.
La teoria critica francofortese, che mescolava Hegel, Marx e Freud, individuava una delle fondamenta del fascismo nella «personalità autoritaria», che interpretava per mezzo della psicanalisi; e riscontrava l’esistenza di rigurgiti e pulsioni naziste senza che vi fosse la necessità di un partito organizzato. Nella sua conferenza sull’Npd Adorno utilizzava così alcuni dei temi di fondo della filosofia e della sociologia della Scuola di Francoforte. La formazione neonazista in espansione recava, quindi, le tracce dell’«eterno ritorno» di una mitologia reazionaria che, sotto il Terzo Reich, si era contaminata con la «modernizzazione fordista», celebrando lo scandaloso sposalizio tra l’ottimizzazione tecnologica e un «sistema folle» e assassino.
Il «nuovo radicalismo di destra» dissezionato da Adorno riproponeva, nella seconda metà degli anni Sessanta, l’antisemitismo, l’anti-intellettualismo, la paura del declassamento e della perdita dello status sociale, l’etnocentrismo e il rifiuto dell’«estraneo», la caccia a un capro espiatorio. E, soprattutto, l’implacabile efficienza di una macchina della propaganda che è l’autentico punto di forza del radicalismo di destra. E a venire propagandata non è esattamente l’ideologia, eccessivamente disorganica e – paradossalmente – troppo «debole» per diffondersi così massicciamente, ma uno stato psicologico di tensione delle masse. Come quello del nazionalismo «patico», la fibrillazione incessante che affoga le sue stesse incertezze e inadeguatezze nell’escalation dei toni (propagandistici).
È accaduto l’altroieri, e poi ieri; e avviene per certi versi anche oggi. Perché un nuovo radicalismo di destra riprende forma ogniqualvolta le condizioni socioeconomiche di interi settori della popolazione peggiorano drasticamente senza che si intraveda una luce in fondo al tunnel. Così, mezzo secolo dopo, lo «spettro» al centro delle riflessioni adorniane fa la sua ricomparsa tra le macerie generate dal Covid-19 e l’avanzare della disoccupazione nel mezzo dell’ulteriore grande trasformazione (tecnologica).