Anche in un piccolo paese come l’Ecuador 200 ettari sono forse poca cosa per l’Amazzonia, ma per un popolo che vede se stesso come un’unica entità con il proprio territorio ancestrale e gli spiriti che lo abitano, venir derubati anche solo di quei 200 ettari è come perdere un pezzo di se stesso. Se quel popolo è ormai ridotto a poco più di 700 anime poi, qualcuna di più con i parenti che vivono oltreconfine in Perù, si tratta allora di un drammatico passo verso l’estinzione culturale e fisica che da tempo minaccia la sopravvivenza dei Siekopai, la “gente dei molti colori” eredi di una ricca cultura e un’originaria cosmovisione dell’Amazzonia ecuadoriana. Seconda più piccola nazionalità indigena del piccolo paese a cavallo dell’Equatore, hanno condiviso nel secolo scorso il destino di molte altre popolazioni loro vicine quando nelle selve della regione del Sucumbios stretta tra le Ande, la Colombia e il Perù venne trovato il petrolio, ultima e definitiva calamita per l’invasione di quelle terre ancora relativamente vergini da parte di petrolieri statunitensi e coloni ecuadoriani alla ricerca di lavoro nei pozzi e terre coltivabili. Ai Siekopai andò un po’ meglio di altre comunità che si trovarono in mezzo alla strada della civilizzazione, scansate a forza per farla passare meglio e scomparse nell’ordalia di distruzioni di villaggi, dubbi uffici dei missionari del tempo e l’avvelenamento dei fiumi con gli scarti tossici dell’estrazione del petrolio in quello che divenne col tempo uno dei peggiori disastri ambientali di sempre, lo sversamento di liquami petroliferi ad opera di Texaco nell’Amazzonia settentrionale dell’Ecuador, diventata celebre in anni recenti grazie ad una storica vittoria legale contro la multinazionale USA, nel frattempo diventata Chevron.
Solo nel 1991 i Siekopai riescono a farsi riconoscere legalmente dallo Stato la proprietà di parte di quello che fu il loro territorio storico, del quale fa ancora oggi parte una delle più rigogliose e ricche di biodiversità regioni amazzoniche. Il riconoscimento legale non ha però messo fine alle minacce e alla depredazione, e le deboli cornici legali e istituzionali non sempre hanno saputo garantire il rispetto di quello che leggi e confini tracciati sulle mappe dovevano garantire. E cosi, quando a partire dal 2008 gruppi di coloni iniziarono a occupare illegalmente il territorio Siekopai, disboscando per sottrarre legname pregiato e far spazio a campi e bestiame, cacciando e pescando illegalmente inquinando acqua e terra, nessuna autorità intervenne per far rispettare le sentenze favorevoli agli indigeni emesse dai tribunali locali, in base alle quali i coloni avrebbero dovuto sloggiare dai 200 ettari invasi. Dopo secoli di soprusi però i Siekopai hanno deciso di combattere con regole nuove e, durante l’estate e preso atto che dall’autorità non sarebbe venuto aiuto, hanno cacciato gli invasori e demolito i loro insediamenti in quella che forse è la prima azione di riconquista delle terre rubate ai popoli originari nella storia ecuadoriana o, almeno, certo quella più mediaticamente pianificata online e offline, accompagnata da manifestazioni, conferenze stampa e social network che hanno raggiunto anche la capitale Quito. Copricapi di piume in testa, lance in una mano e atti giudiziari nell’altra, ai primi di luglio e dopo un’assemblea di tutta la nazionalità dove si è deciso di passare all’azione, avvalendosi dei propri diritti di autogoverno che la Costituzione garantisce ai popoli indigeni i dirigenti Siekopai si sono presentati ai coloni intimandogli di abbandonare entro 48 ore il proprio territorio, e contemporaneamente avvisando le autorità provinciali a presenziare a garanzia dei diritti di invasi e invasori. Due giorni dopo l’ultimatum è scaduto. Centinaia di Siekopai si sono radunati all’alba del 7 luglio in un villaggio lungo il rio Aguarico, celebrato antichi riti di guerra e bevuto la bevanda sacra, lo Yagé, per chiamare a raccolta le forze spirituali, e sono partiti per affrontare gli invasori. Quelli però avevano già capito che s’era fatto tempo per levar le tende e, salvo un pugno di famiglie che qualche cavillo legale per rimanere li per il momento erano riuscite a trovarlo, tutte le altre avevano già sgomberato il campo poche ore prima dell’arrivo della lunga colonna, quasi tutto il popolo Siekopai, di uomini e donne venuti a reclamare il proprio territorio. Tutto è allora finito rapidamente, con la demolizione delle case abbandonate e il rientro nei propri villaggi.
“È stato un atto di autogoverno e autodeterminazione, che la costituzione dello Stato Plurinazionale dell’Ecuador ci riconoscenel nostro territorio”
afferma Justino Piaguaje, carismatico e corpulento leader dei Siekopai, rifiutando l’etichetta di azione di forza che ridurrebbe questa, piccola, storica vittoria di una minuscola popolazione amazzonica ad una schermaglia di poco conto con qualche colono. Si è trattato invece, oltre che della prima nota azione di riconquista del territorio nel paese da parte dei popoli originari, di un’azione forte e non violenta, all’interno della legge e mediaticamente vincente che ha dimostrato come anche un piccolo popolo indigeno possa sfruttare a proprio vantaggio i mezzi della modernità per vincere le aggressioni e le ingiustizie che ancora oggi come 500 anni fa subiscono le popolazioni natie di Abya Yala. Ingiustizie che, tuttavia, negli ultimi decenni hanno incontrato una crescente risposta con il sorgere e rafforzamento delle organizzazioni e movimenti nazionali ed internazionali indigeni. Dall’evento spartiacque dell’insurrezione zapatista in Chiapas nel 1994, fino ad arrivare alle nuove costituzioni che paesi come Ecuador e Bolivia hanno approvato durante la stagione di progresso latinoamericano apertasi all’inizio del secolo con l’elezione degli ex presidenti Correa e Morales, dove le istanze indigene trovarono giusto riconoscimento con l’inserimento del concetto di “stato plurinazionale” nelle nuove Carte, passando per innumerevoli battaglie grandi e piccole, l’indigenismo si è imposto come forza politica e sociale di rilievo. E se tanti traguardi ha saputo raggiungere, le minacce sono ben lontane dall’essere sconfitte come il colpo di stato dalle tinte fortemente razziste in Bolivia nel 2019 è li a ricordare, assieme però alla vittoriosa resistenza del movimento indigeno locale che ha portato nella scorsa primavera al ristabilirsi della democrazia e di un governo legittimo, espressione del movimento stesso. Ora, con la recente nascita di Runasur, l’organizzazione del movimenti indigeni voluta da Evo Morales con l’obiettivo di unire come non mai in precedenza i popoli originari dell’America Latina, si aprono forse nuove strade per uscire dal buio della notte dei 500 anni.