Alla vigilia del diluvio

Novecento L’amore infantile di una ragazzina per uno studente in un raccontodel romanziere tedesco tradotto da Renata Colorni per le Edizioni Henry Beyle

 

di Claudio Magris

Thomas Mann descrive un ambiente altoborghese  nell’atmosfera sospesa e decadente degli anni Venti

Mestiere dell’ombra, così Renata Colorni definisce l’arte del traduttore, di cui è maestra. Arte spesso ingiustamente sottovalutata, culturalmente ed economicamente, tranne poche eccezioni. Non molti anni fa è nata, credo in Germania, una legge che, nel caso di libri tradotti e pubblicati con grande successo, rende, oltre a un certo numero di copie vendute, il traduttore partecipe dei diritti. Spesso invece, ancor oggi, il traduttore non viene, ad esempio, neppure menzionato nelle recensioni, che risultano in tal modo incomplete e inadeguate, perché il lettore del libro ha il diritto (e il dovere, per la sua reale cultura) di recepire, attraverso la versione, la qualità del libro, il suo mondo, la sua musica.

In altri Paesi c’è una forte tradizione del valore letterario, poetico del tradurre. Goethe diceva addirittura che preferiva leggere il suo Faust nella versione francese di Nerval e Dryden considerava che la sua versione dell’Eneide fosse il suo capolavoro poetico.

I grandi traducono i grandi. Renata Colorni ha tradotto Freud, Canetti, Bernhard, Dürrenmatt, Altenberg, Roth, per citare solo alcuni suoi autori. Ad esempio, il suo straordinario Freud è stato un’impresa difficilissima e felicemente riuscita per la rivoluzionaria complessità di Freud anche nel suo linguaggio e nelle sue interpretazioni del linguaggio.

Accanto a Freud, Thomas Mann, altra colonna portante della modernità e della sua fine. Di Mann, Renata Colorni ha tradotto La montagna magica — titolo ripreso da un vecchio articolo di Leonello Vincenti, uno dei grandi padri fondatori della germanistica italiana, che lo recensì appena uscito in tedesco. Il titolo della versione di Renata Colorni si contrappone a quello, più universalmente accettato, La montagna incantata. Anch’io faccio parte, come lei ben sa, dei più che sentono fortemente la seduzione, l’abbandono, la poesia di questo participio passato, che evoca lo scivolare in un sonno, in un dolce nevischio di morte.

Oltre ad aver rivisto quasi tutte le versioni di altri traduttori di Mann nei Meridiani, Renata Colorni ha di recente curato e tradotto, per le edizioni Henry Beyle, Disordine e dolore precoce, racconto uscito nel 1925, dopo la stesura definitiva della Montagna magica. Quando il libro esce — nel 1926 in Francia e in Inghilterra e nel 1927 in Italia, nella versione di un’altra grande traduttrice di Mann e in generale di letteratura tedesca, Lavinia Mazzucchetti — la Germania, come nell’insieme l’Europa, è scossa e travolta da un disordine ben più grande, la crisi mondiale della fine degli anni Venti, con la sua inflazione che ingoia come un leviatano le ricchezze, i beni, il denaro, l’oro, il pane, una birra al prezzo di ottomila marchi che il giorno dopo si raddoppiano. Un amico di mio padre, tipografo, in quel periodo lavorava in Germania, secondo l’uso, frequente nel suo mestiere, di fare esperienza in diversi Paesi, per apprendere nuove tecniche di lavoro. Raccontava, anni dopo, che il suo gruppo riceveva, come gli altri, il salario due volte al giorno, sicché il mattino uno degli operai raccoglieva il denaro di tutti e usciva per comperare ciò che era possibile e che il pomeriggio sarebbe costato il doppio o il triplo. E un mio zio, che era andato a Vienna — nel periodo dell’inflazione austriaca — a studiare diritto, era partito da Trieste con una valigia di lire che non finivano mai, grazie alla continua e spropositata svalutazione della moneta austriaca, sicché in quegli infernali gironi di carta straccia se l’era cavata senza troppe difficoltà.

Oggi quel tragico luna-park impazzito ci fa sentire, ben più di ieri o di qualche anno fa, in una tempesta che ci scaglia non sappiamo dove come le montagne russe della giostra e che sempre più temiamo possa un giorno frantumare e dissolvere nel nulla il nostro mondo, la nostra società, la nostra civiltà, la nostra vita. È l’economia che trasforma radicalmente il lavoro, la vita, la società e l’uomo stesso. La falsa razionalizzazione del lavoro, con la simbiosi di capitalismo e tecnica, come scriveva Cesare Cases, sembra un animale preistorico divenuto un’irresistibile macchina tritacarne del presente e del futuro. A farne le spese è, in primo luogo, l’individuo, frullato e sbattuto come le poche uova comperate per montagne di marchi.

Disordine e dolore precoce percepisce ma anche allontana la vicina disgregazione dell’Europa, della sua civiltà e della civiltà tout court, del mondo stesso di Mann, che dopo quel crollo sarà un geniale e abilissimo sopravvissuto, un epigono di se stesso. Nel racconto questo diluvio universale simboleggiato anche dall’inflazione, si avverte come un’eco, una bufera che resta quasi fuori dalla porta, dietro i vetri delle finestre. All’interno della villa altoborghese si svolge la tempesta sentimentale della piccola Lorchen, che s’innamora infantilmente dello studente Max Hergesell — infantilmente ma con passione conturbante, che sarà presto dimenticata ma segnerà per sempre il profondo della piccola Lorchen: la dolorosa e struggente consapevolezza che si ama ciò che è destinato a non durare, perché è questa la vita. Ogni amore, per Mann, da quello per il mare a quello per Madame Chauchat, l’affascinante malata della Montagna magica dagli occhi come «fessure tartare», è amore della morte.

Il testo sembra avvertire l’irresistibile avvicinarsi del nazionalsocialismo come si scoprono in una coltura i germi specifici di una malattia

Con questo racconto Mann evoca il tragico e contemporaneamente lo appanna, lo ossida come un’argenteria; il pianto della bambina è irrefrenabile e convulso, ma è come rattenuto dall’ordine e dal rispetto con cui il professor Cornelius apparecchia la tavola, cura la sequenza delle vivande. Anche in questo caso amore per ciò che è votato alla distruzione, come la carne, ma in questo caso distruzione tenuta a bada dall’arredamento della stanza, dal lampadario con le candele elettriche accese, il camino di terracotta, il rivestimento in legno dolce delle pareti, il tappeto rosso, il piattino con la tazza da tè e il pane con le acciughe. Cibi e cose anch’essi deperibili, ma con meno dolore.

La Storia, ovvero il dolore e il disordine, restano fuori, dietro i vetri appannati. Pure l’inflazione — con tutte le tragedie che essa provoca su tanti, su tutti, anche se un po’ di più su chi non può permettersi neanche il pane — resta fuori. L’inflazione è un volto e una realtà fondamentale di quei ruggenti, selvaggi e insanguinati anni Venti e iniziali Trenta, preludio e gestazione della tragedia nazi-fascista presto incombente su tutta l’ Europa.

Mann ha raccontato, con grandezza ineguagliabile, la decadenza della borghesia ottocentesca e dei suoi valori, soprattutto in quel capolavoro assoluto che sono I Buddenbrook. Anche Disordine e dolore precoce è un momento, minore e ancora — per poco — in sospeso, di quella decadenza. Ma questa viene volutamente raccontata non come la forza ineluttabile del destino — Hanno Buddenbrook che tira una selvaggia riga finale nell’ultima pagina della cronaca di famiglia — ma con la pacata distanza del professor Cornelius, storico che ama la storia passata ed è respinto da quella presente. Ne è respinto non soltanto perché essa, in quegli anni, è particolarmente minacciosa, confusa e violenta, ma perché soltanto la storia passata può conferire quell’ordine, quella serenità e quel pathos morale insiti nella parola Kultur, che dà di quel passato un racconto ordinato ed esprime su di esso un giudizio oltre il rogo. La storia contemporanea è in divenire; non ha e non può ancora avere un senso chiaro e definito, ma è essa stessa il disordine e il caos che creeranno chissà quale futuro.

Quando scriveva Disordine e dolore precoce Thomas Mann non conosceva e non poteva conoscere il futuro che si preparava, il trionfo del nazionalsocialismo, e forse poteva vagheggiare per sé un atteggiamento dinanzi alla barbarie simile a quello del professor Cornelius — debole barricata contro la violenza e la forza del nazismo. Quando il nazismo trionferà, Mann saprà prendere una posizione sempre più dura.

Disordine e dolore precoce sembra avvertire l’irresistibile avvicinarsi del nazismo come si scoprono in una coltura i germi specifici di una malattia, sui quali i nostri antibiotici potrebbero forse avere ancora la meglio. È geniale che Mann scriva questo libro come lo avrebbe scritto il professor Cornelius — artificio ripreso genialmente nel Doktor Faustus — ma il professor Cornelius non può capire e prevedere ciò che sta succedendo e succederà e forse allora non lo poteva neanche Mann.

Sono stati altri autori a rappresentare il futuro in arrivo. Autori di vario colore politico che si sono tuffati nella vertigine e nel caos della grande trasformazione tecnica di quegli anni; autori quali Jünger, Brecht, Döblin, Kästner e anche grandi registi cinematografici, maestri nel percepire e rappresentare l’orrore e la disumanizzazione. Pure autori minori che afferrano il meccanismo e le conseguenze di un gigante della Storia come l’inflazione. Uno scrittore che meriterebbe di essere ricordato per conoscere meglio la genesi del mondo che incombeva in quegli anni e incombe ancora oggi è Rudolf Brunngraber, autore di molti romanzi fra i quali Karl e il Ventesimo secolo, il cui protagonista è l’inflazione, narrata con intensità nella sua potenza che fa di essa il gigante di un poema epico. Il professor Cornelius è troppo consapevole dei suoi limiti per andare oltre le montagne di marchi per poche uova.

 

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