La politica britannica riparte dalla Brexit.

6 settembre 2018

di Domenico Cerabona

Lunedì 3 settembre ha riaperto il Parlamento di Westminster e la politica britannica ha ripreso a pieno regime, in particolare con le polemiche al vetriolo sulla spada di Damocle che pende sul Regno Unito: l’imminente uscita dall’Unione Europea. Theresa May deve infatti in teoria chiudere entro dicembre un accordo con l’Unione per poi sottoporlo al vaglio del Parlamento.

La settimana però non si è aperta in maniera facile per il governo. Il capo negoziatore dell’Unione Michel Barnier ha infatti rilasciato un’intervista ad un giornale tedesco in cui ha dato un giudizio molto negativo sul cosiddetto “piano Chequers”. Barnier, in sostanza, ha spiegato che le condizioni poste dal piano della May sono inaccettabili per l’Unione e che, per ottenere quanto richiesto nel piano di Chequers in termini soprattutto di accordi commerciali, l’unico modello possibile è quello norvegese; un modello che, però, sarebbe politicamente un suicidio per i Conservatori: la Norvegia infatti ha sostanzialmente gli stessi obblighi verso l’Unione di un Paese membro – compresa la libera circolazione dei cittadini europei – senza però far parte degli organismi decisionali europei. Sarebbe sostanzialmente una Caporetto britannica.

Il primo ministro ha dovuto subire anche due pesanti bordate “amiche” da parte di due illustri esponenti del suo partito, ovviamente sostenitori di una hard Brexit: Boris Johnson e Jacob Rees-Mogg.

L’ex ministro degli Esteri Johnson, dimessosi proprio perché – insieme al suo collega ministro per la Brexit David Davis – in disaccordo con la proposta di Chequers, in un pungente articolo sul Telegraph ha attaccato frontalmente il piano proposto dalla May definendolo una resa nei confronti dell’Unione. Con la sua penna molto affilata Johnson ha descritto la Gran Bretagna come prossima ad essere presa a sberle dall’Unione, che uscirebbe dalle trattative come vittoriosa e minacciosa nei confronti di chiunque altro volesse sfidarla. Ripetendo la formula usata nel suo altrettanto colorito intervento di dimissioni, Johnson ha definito lo scenario che si verrebbe a creare se dovesse essere accettato il piano di Chequers come una «Brexit in the name only»: una Brexit solo sulla carta. Johnson ha infine dipinto quello del nuovo confine tra Irlanda e Irlanda del Nord come un falso mito. L’ex sindaco di Londra sostiene che nessuno pensa possibile l’istituzione di un nuovo hard border (il confine fisico, con l’istituzione di nuove dogane) e che ci sono moltissime soluzioni a disposizione per affrontare il problema dell’uscita dell’Irlanda del Nord dall’alveo dell’Unione Europea. Insomma, secondo l’aspirante leader conservatore, quello del confine in Irlanda è un finto problema montato ad arte per impedire che la Brexit ponga fine alla libera circolazione delle persone e all’adesione al mercato unico europeo. Come diremmo in Italia, secondo Johson è una fake news.

Jacob Ress-Mogg, potente parlamentare ultra conservatore, leader insieme a Johnson dell’ala pro-Brexit, dopo essersi recato a Bruxelles per un incontro tra la commissione parlamentare sulla Brexit e Michel Barnier è uscito dichiarando che lui e il negoziatore dell’Unione avevano avuto un incontro molto cordiale in cui avevano concordato sul fatto che il piano della May fosse «una assoluta schifezza».

È dunque evidente che la battaglia all’interno dei Conservatori, sia sulla Brexit ma soprattutto per la leadership del partito, sia ben lungi dal finire. Per non farsi mancare nulla, poi, la May ha dovuto subire un pesante attacco dalla Germania, con le dichiarazioni di Angela Merkel secondo le quali non si può escludere che le trattive tra Regno Unito e Unione collassino da un momento all’altro. Non c’è che dire, un inizio di settembre impegnativo per Theresa May.

In acque appena più tranquille naviga il leader del Partito laburista, Jeremy Corbyn. Dopo aver passato una estate infernale a difendersi dalle accuse di antisemitismo, il leader laburista adesso deve affrontare forze sempre crescenti che gli chiedono di farsi campione della proposta di un referendum popolare che (dis)approvi l’accordo finale sulla Brexit. È di queste ore l’annuncio di uno dei più importanti sindacati britannici (nonché uno dei principali sostenitori del Partito laburista e di Corbyn), il GMB, di sostenere l’idea del ritorno al voto prima dell’uscita definitiva dall’Unione. Questo annuncio fa aumentare ancora di più la tensione all’interno del Labour in vista dell’Annual conference che si terrà dal 22 al 26 settembre a Liverpool. In quella sede infatti, una volta all’anno, vengono discusse e votate le linee programmatiche del Partito laburista e il 25 settembre è, come ovvio, prevista la discussione sulla Brexit. L’appoggio del GMB all’idea di un secondo referendum, associata a forti richieste da parte di alcune correnti interne del Labour da sempre sfavorevoli alla Brexit e in polemica con la linea più pragmatica di Corbyn, potrebbe rendere le votazioni in materia meno scontate del previsto. Infatti, in teoria, il segretario del Labour gode di una solida maggioranza all’interno del partito e di tutti gli organi dirigenti, proprio grazie all’appoggio incondizionato di quasi tutti i sindacai affiliati, che sono alla base del movimento laburista.

Insomma, una ripresa dei lavori molto impegnativa per tutta la politica britannica e non ci si potrebbe aspettare nulla di diverso da una delle vicende più importanti e controverse della storia recente del Regno Unito.