La pantomima e l’implosione di un progetto.

Più che una mediazione,  è stata una lunga pantomima. E finisce nel modo più inglorioso, per chi l’ha condotta e per
chi ha mostrato di darle credito. La «coalizione larga» accarezzata dal Pd per non trasformare il proprio sistema elettorale in una trappola autolesionistica, è naufragata ieri dopo il «no» e il ritiro dell’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia.
Si unisce alla decisione del suo gruppo di schierarsi in prevalenza con Liberi e Uguali, la formazione guidata dal presidente del Senato, Pietro Grasso. E la decisione sofferta e da rispettare del ministro degli Esteri e leader di Ap, Angelino Alfano, di non ricandidarsi in Parlamento, toglie un’altra piccola stampella al progetto. Il vertice dei Democratici reagisce sostenendo che l’operazione va avanti. Ma il centrosinistra è in piena implosione.

Quanto è accaduto dà corpo a una sorta di «strategia della fuga» da Matteo Renzi, che complica la prospettiva elettorale del maggior partito di governo. Adesso sarà difficile sperare in un appello in extremis di un «padre nobile» come Romano Prodi, perché aiuti una sinistra in macerie. Le esitazioni e le oscillazioni di Campo progressista hanno certamente contribuito all’esito disastroso. Ed è difficile pensare che la rottura sia avvenuta sulla rinuncia di fatto del Pd allo ius soli , come fa capire Pisapia.

Giustamente il portavoce di Renzi, Matteo Richetti, lo invita a non farlo. La verità è che l’ex sindaco di Milano non è riuscito a far passare tra i suoi l’idea di un’alleanza col centrosinistra. E, di fronte a una diaspora, ha preferito la ritirata. Le contraddizioni, però, erano visibili da mesi. Sono diventate letali con la nascita del gruppo di Grasso. È stata quell’iniziativa a mettere in moto una febbrile campagna di arruolamento da parte del Pd, con Piero Fassino nel ruolo di mediatore e delegato renziano.

Il problema è che ormai si erano delineati due campi incompatibili tra loro, e divisi da odi politici irriducibili: anche per questo nessuno si fidava delle garanzie offerte. E agli interlocutori era sempre più chiaro che a loro rimaneva il ruolo residuale dei satelliti, attirati con il miraggio di seggi sicuri soltanto sulla carta. Ma soprattutto, si è sedimentata l’impressione di una riforma elettorale fatta male e con effetti paradossali.

Un Pd sicuro di tagliare le unghie al Movimento Cinque stelle e di costringere i frammenti della sinistra a trattare da una posizione di subalternità, si è ritrovato spiazzato. Ha capito, dalle elezioni in Sicilia a ottobre, che il vantaggio della «sua» riforma andava a beneficio del centrodestra e delle sue capacità di coalizzarsi; e che, invece dell’inseguimento nostalgico del 40 per cento delle Europee del 2014, e del 41 per cento del referendum perso un anno fa, doveva cercare rapidamente alleati.

L’operazione non è riuscita. E, segnale peggiore per il Pd, il gruppo degli scissionisti di Mdp, più SI e altri, si è compattato intorno a Grasso. L’arrivo dei seguaci di Pisapia non aggiungerà granché in termini di voti; ma simbolicamente accentua l’immagine di un Pd incapace di aggregare. Renzi non sopravvaluta quanto è successo. E la sottosegretaria a Palazzo Chigi, Maria Elena Boschi, è sicura che «supereremo il 30 per cento in tutti i collegi»; e che si formerà una «coalizione forte e coesa».

Magari ha ragione e ci sarà il miracolo. D’altronde, prevedere gli effetti della nuova legge elettorale non è facile. Si può già indovinare, tuttavia, una frattura a sinistra destinata a aggravarsi; e un malumore nelle file del Pd che solo la vigilia delle elezioni arginerà. Per ora è imploso il centrosinistra come coalizione. Dopo il voto, si vedrà quali dinamiche si metteranno in moto all’interno dei partiti.

 

Corriere della Sera.

www.corriere.it/