La normalità perduta

di Gad Lerner
abbassa le saracinesche ma questa non è una guerra, per fortuna. Non ancora. In guerra gli uomini partivano e ogni giorno morivano a migliaia. È pur vero che neanche in tempo di guerra si giunse allo stop totale degli esercizi commerciali e degli uffici non essenziali. Allora diciamo che l’ulteriore Dpcm (Decreto della presidenza del Consiglio dei ministri) fermatutto varato ieri sera, proprio perché necessario, risuona nell’inconscio del Belpaese come una premonizione, già maturata da chi sta vivendo lunghe ore di autoisolamento tra le pareti domestiche.
Cioè la possibile fine della nostra età del benessere, a cominciare proprio da una macroregione, il Nord Italia, che detiene standard di qualità della vita fra i più elevati del pianeta. E che si ritrova all’improvviso non solo isolata, ma avvolta nel mistero. Nell’incognito.
A Milano circola una battuta che riassume uno stato d’animo: «È finita la belle époque ». Il “passo in più” per evitare «una corsa cieca verso il baratro» – parole del premier – poggia sulla riscoperta del senso di comunità.
Intanto che restringiamo la nostra libertà di movimento e la nostra libertà d’impresa, cominciamo a immaginare il futuro che ci aspetta.
Pare davvero illusorio promettere che nessun posto di lavoro verrà perduto, quando diviene semmai essenziale uno sforzo di finanza pubblica straordinario che garantisca, questo sì, che nessuno perda il proprio reddito a causa del virus. Sia che bastino i 25 miliardi di scostamento dagli obiettivi di finanza pubblica votati ieri in Senato, sia che ne occorrano di più.
Parlare di ritorno alla normalità, fra due settimane o due mesi, è solo una pietosa bugia. Riconoscerlo, sia ben chiaro, non è una profezia d’infelicità o di biblica “fine dei tempi”. Il coronavirus non è l’Apocalisse.
Ma nella prossima clausura, estesa su tutta la penisola, gli italiani saranno chiamati a riflettere sull’inevitabile cambiamento esistenziale. Udire il leghista presidente della Lombardia che (giustamente) ieri pomeriggio raccomandava: «Rinunciare al guadagno, ai momenti di piacevolezza, a qualunque cosa». E poi il presidente leghista del Veneto che (giustamente) batteva il pugno sul tavolo: «Voglio vedere le strade vuote, le luci dei locali spenti»… Beh, sono stati anche questi segnali anticipatori di un rivolgimento profondo. Al quale inevitabilmente faticano ad adeguarsi soprattutto gli industriali, costretti dal loro ruolo a invocare una generalizzata salvaguardia della produzione, rivendicando il diritto all’autoregolamentazione delle precauzioni sanitarie, pena la perdita di quote di mercato del nostro export. I sindacati non si fidano e oppongono la priorità della tutela della salute dei lavoratori. Ma intanto le fabbriche non chiudono.
Figuriamoci se non hanno buone ragioni sia gli imprenditori sia i sindacati. In guerra le attività industriali non si sospendevano, anzi. Gli operai degli impianti strategici non venivano mandati al fronte, e quelli delle altre aziende venivano sostituiti dalle donne. Settantacinque anni dopo il 1945, però, lo scenario futuro potrebbe riservarci delle analogie: è inevitabile prevedere che comunque il nostro sistema produttivo, a cominciare dalla manifattura metalmeccanica padana che continua a rappresentare la colonna vertebrale dell’economia nazionale, ne uscirà profondamente modificato. Non distrutto, ma modificato.
Lo smart working , cioè il lavoro da casa, è una bellissima innovazione che però non si applica alla produzione e alla distribuzione delle merci.
La spinta allo stop totale innescata dai governatori del Nord (Lombardia, Piemonte e Veneto, cioè 20 milioni di abitanti, non sono solo un terzo della popolazione italiana, ma anche di gran lunga la più grande concentrazione di ricchezza nazionale), ha trovato subito udienza anche tra i presidenti delle regioni meridionali. Consapevoli che il Mezzogiorno non sarebbe minimamente in grado di reggere, col suo sistema sanitario, un’analoga diffusione dell’epidemia. Il governo ne ha preso atto e l’Italia intera è diventata “zona rossa”.
Siamo davvero tutti sulla stessa barca, ed è un bene che l’istinto ci conduca all’uniformità nell’applicazione dei provvedimenti e nell’osservanza dei comportamenti.
L’emergenza rischia sempre di accompagnarsi alla paranoia collettiva, ma il prevalere di una pur sofferta razionalità funziona anche da disincentivo dell’egoismo e dell’individualismo, e ci risparmierà la vergogna di un impossibile “si salvi chi può”.
La messa in sicurezza e il potenziamento del sistema sanitario sono l’assoluta priorità del momento, e a ciò è finalizzata la nomina del commissario Domenico Arcuri: non certo a sostituirsi al governo e alle regioni. Ma evidenzia anche gli inevitabili percorsi futuri di sostegno alla società e all’economia post-coronavirus. Non sono, questi, tempi di autoregolamentazione dei mercati, ma di accentuato intervento statale, pubblico. Vale per l’Italia così come vale per l’Europa. Speriamo che l’abbia capito la presidente dell’Ue, Ursula von der Leyen che ci si è rivolta nella nostra lingua per dire che «siamo tutti italiani» e che «l’Europa è una grande famiglia che non vi lascerà soli». La solitudine, altrimenti, diventerebbe il virus disgregatore aggiuntivo che suggellerebbe il finale della bella epoca in cui ci eravamo illusi di asservire le forze della natura, calpestandole.
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