Davanti all’evoluzione dell’epidemia Coronavirus, molti mi chiedono se c’è ancora da essere ottimisti. Comincio con l’esprimere un concetto sul quale tutti siamo d’accordo.

Ne usciremo e il tempo entro il quale ciò avverrà dipende da ciascuno di noi. Oggi la cosa più importante è che la gente abbia fiducia nelle istituzioni, deputate a prendere provvedimenti, e nella scienza. Certo non basta una sola voce a tranquillizzare e perciò è utile che ciascuno di noi abbia la modestia e la disponibilità a confrontarsi e anche a modificare il proprio pensiero. Sin dall’inizio del fenomeno “Coronavirus” sono stata ottimista e ho sempre cercato di spegnere il panico. Il panico è dannoso, ipotizzare scenari disastrosi porta a conseguenze impensabili. La fuga dal Nord di qualche giorno fa, ne è testimonianza. Essere tranquillizzanti, pur dicendo il vero, senza aggiungere ipotesi catastrofiche resta, a mio avviso, l’unico mezzo per lavorare tutti bene. Capisco che i catastrofisti rischiano meno e sono più accattivanti, ma il compito della comunicazione scientifica è quello di creare tutti gli elementi per la migliore soluzione dei casi. “Consultate solo i siti dell’Organizzazione della Sanità e quello del ministero della Salute”, l’ho sempre affermato. Parliamo di un virus nuovo, la situazione più migliorare o peggiorare, ma cerchiamo di essere ottimisti. Mi rendo conto che davanti a immagini di reparti di rianimazione affollati, di ambulanze che corrono per la città e martellanti servizi su tutte le reti, è difficile rassicurare. Eppure dobbiamo farlo.

Ecco cosa risponde Ilaria Capua – la virologa che dirige il One Health Center of Excellence dell’Università della Florida – alla domanda se è preoccupata: “Preoccuparsi non serve. Non sono preoccupata… anzi, non è vero: sono preoccupata. Preoccupa la paura perché porta alla psicosi”. Quando io, e non solo io, abbiamo parlato di un fenomeno poco più grave di un’influenza, non lo abbiamo fatto arbitrariamente, ma guardando ai report giornalieri dell’Organizzazione della Sanità. Quando rassicuriamo sul fatto che non è una minaccia per l’umanità, ma che c’è una fascia a rischio che, purtroppo, sarebbe a rischio anche durante un’epidemia influenzale, è la verità. La differenza resta nel fatto che non abbiamo la possibilità di proteggere questa “fascia a rischio” con un vaccino, né con una terapia che, in qualche caso, potrebbe essere efficace.

È assolutamente vero che la letalità in Italia è più bassa rispetto ai casi cinesi e non è più alta di quella delle altre nazioni occidentali.

Riporto due interventi di colleghi stimatissimi. L’altro giorno, Gianni Rezza dell’Istituto Superiore della Sanità, spiegava: “Se stratifichiamo per età, abbiamo tassi di letalità un po’ più bassi della Cina. Noi abbiamo una popolazione molto anziana, l’età media dei decessi è superiore agli 80 anni. L’altro motivo è che i tamponi sono fatti sulle persone sintomatiche: si restringe il denominatore a persone che vengono ospedalizzate e automaticamente il tasso di letalità sembra più alto di quello che è”. Ilaria Capua afferma: “I morti sono meno di quanto si creda. Gli altri Paesi registrano i decessi in modo diverso. Penso all’Inghilterra. Prima si registra la vera causa del decesso e poi si annota se era positivo o meno a questo o a quel virus. Ma il problema resta, se i contagiati intasano gli ospedali, la struttura collassa”.

Ecco il vero e unico problema. Quella pur limitata percentuale di pazienti, costituisce un numero assoluto di ricoverati in unità intensive, difficilmente sostenibile. Questo è un virus che ammazza il sistema sanitario. Il 3,4% di decessi, seppur importanti e soprattutto in una fascia di pazienti “a rischio” per età e comorbidità (presenza di altre patologie), non è un fenomeno da peste manzoniana. Torno a citare la collega virologa. Alla domanda di quale differenza c’è con le normali influenze, risponde con molta lucidità: “La normale influenza tiene impegnata una percentuale significativa di risorse e delle energie degli ospedali. Se a questa si aggiunge una nuova patologia molto contagiosa allora diventa un grosso problema. Il coronavirus ha un’elevata contagiosità e noi dobbiamo cercare di tenere gli anziani e le categorie fragili al riparo. Di più: dobbiamo cercare di tenere gli anziani sani e quindi fuori dagli ospedali perché altrimenti il sistema rischia il collasso. Un amico medico mi diceva che nella sua struttura hanno già rinviato più di 600 interventi, va da sé che se uno deve operarsi di un tumore sarà costretto a rimandare, perché non ci sono sale operatorie”.

Cosa possiamo allora dire sinteticamente a chi è assetato di spiegazioni in uno scenario tutt’altro che rassicurante? Covid-19 non è la peste, uccide poco, ma manda in tilt il sistema sanitario. Non colpisce i bambini che possono risultare positivi con sintomi non gravi, ma possono trasmettere il virus. Tutta la popolazione può infettarsi, ma la maggior parte della popolazione infetta non ha sintomi o ne accusa poco gravi, curabili al proprio domicilio. È mortale quasi esclusivamente in una fascia di età alta e con altre patologie (3.4%). Non esiste un vaccino, né una terapia mirata. È meno contagioso dell’influenza stagionale. Il 43% di pazienti positivi e sintomatici vengono ospedalizzati. Il 47% dei pazienti sintomatici vengono curati a casa in isolamento domiciliare. Il 10% dei positivi necessita di ricovero in terapia intensiva.

Effetto gregge. Con l’espressione “immunità di gregge”, o immunità di gruppo, si intende quel fenomeno per cui, una volta raggiunto un livello di copertura vaccinale (per la singola infezione) considerato sufficiente all’interno della popolazione, si possono considerare al sicuro anche le persone non vaccinate. Il motivo è chiaro. Essere circondati da individui vaccinati e dunque non in grado di trasmettere la malattia è determinante per arrestare la diffusione di una malattia infettiva.