La morte non è un fatto privato

Non è facile per un cattolico, per di più impegnato in un’associazione di vita cristiana come le Acli, poter intervenire nel dibattito sull’eutanasia con la certezza di essere etichettato per le proprie convinzioni sul fine ultimo della vita. E questa semplificazione eccessiva è in se stessa una forma di rifiuto del dialogo che sarebbe tanto più necessario su questioni etiche di tale rilevanza. Questa preoccupazione si riflette anche negli interventi pubblici: a parlare sono i proponenti il referendum e la Chiesa, intesa come i propri organi pastorali. I credenti, i fedeli laici, mancano quasi del tutto in questo dibattito.

LA PRIMA RIFLESSIONE è che il dibattito manca persino tra i promotori, visto che associazioni e partiti politici (in particolare quelli che ritengono di valorizzare la cultura cattolico democratica) avrebbero potuto consultare la propria base, aprire un dibattito interno prima di prendere la decisione di promuovere il referendum, e ciò rimanda anche alla riduzione dei partiti a semplici cartelli elettorali.
E in effetti, e questo è il secondo punto, molta della cultura antipolitica deriva proprio dalla convinzione che le discussioni non servano a nulla, che i parlamentari siano una manica di oziosi e che le questioni importanti vadano decise con un taglio netto. Questa è in sé stessa un’abdicazione dei partiti dal loro ruolo non solo di mediatori ma anche di educatori del corpo sociale, di ammortizzatori di spinte spesso emotive ed irrazionali che nel loro unilateralismo non colgono la complessità dei problemi.

Un terzo punto, che mi interroga di più, riguarda la motivazione di fondo dei referendari: «Finalmente liberi», questo il motto della campagna, pone l’atto della morte come atto di libertà, di autodeterminazione, sbattendo davanti all’opinione pubblica le sofferenze del malato cronico ma dimenticando che la depenalizzazione avviene anche nei casi in cui si aiuti una persona che ha semplicemente deciso di farla finita, magari perché afflitta dai debiti o per il semplice mal di vivere.

IL TEMA È CULTURALE ed etico perché oggi la nostra è una società “usa e getta”: consumiamo la vita come se fosse una bibita fresca da bere tutta d’un fiato e quanto è finita la si butta via. Ma proprio in questi anni abbiamo lottato insieme per la vita, contro questo maledetto virus, abbiamo capito qual è la direzione che si dovrebbe prendere nel nostro rapporto con gli altri, con la natura. E proprio ora, nel pieno di questa ripresa, nella quale rifiorisce la speranza, poniamo questo interrogativo di morte come priorità ai cittadini?
Chiariamo un pensiero. La morte fa parte della vita, ci dovremo fare i conti tutti. Da cristiano non trovo le parole per convincere altri rispetto alla bellezza della vita, anche quella sofferente, non ho la grazia per sostenere che nulla muore davvero ma tutto scorre perché c’è una direzione, uno sviluppo finale per cui nulla è perduto, né una lacrima, né una lotta, né una speranza; che non c’è sofferenza nascosta, non ci sono esperienze minori. Tutto ha senso.

Con questo non cerco di consolare con l’esperienza della croce, che ognuno può rifiutare. Ma vorrei che si aprisse un dibattito franco non tanto su due visioni della vita, ma nel pieno bene della persona che intende lasciare la vita. Dove può arrivare il dolore di una persona? Dove possono arrivare le cure, qual è una vita degna? Interrogativi che non devono nemmeno sfuggire ad un cristiano che fa i conti con la modernità, con la scienza e la sua applicazione, sapendo che nessuno di noi può aggiungere un’istante alla propria vita.

SE LA MORTE DIVENTA sinonimo di libertà, se il nascere, il morire, il costituirsi in famiglia, il generare o meno figli e come farlo, sono solo questioni che vengono lasciate alla dimensione privatistica, per non dire egoistica, dell’essere umano, dimenticandone l’evidente rilevanza sociale, quel tessuto connettivo che ci tiene uniti gli uni agli altri e ci rende comunità, nel momento in cui la nostra individualità personale si apre agli altri – e che in fondo è la logica stessa che presiede alle decisioni «difficili ma necessarie», come ha detto il Presidente Draghi a proposito dell’obbligo vaccinale – rischia di sfaldarsi.

Mi sembra, in effetti, che queste concessioni sempre più sistematiche alla dimensione individualistica dei diritti civili finisca per rendere irrilevante quella che è la loro natura sociale, di fatto collocando la sinistra – intesa in senso lato – in una posizione impropria, nel momento in cui slega il diritto soggettivo dalla comunità etica e sociale a cui ogni essere umano appartiene e che costituisce non un limite ma una necessaria contestualizzazione della nostra libertà di singoli in rapporto alla libertà e al benessere altrui.
Apriamo un dibattito costruttivo, interroghiamoci, lasciamo anche spazio al Parlamento di trovare la giusta sintesi, laica, ma rispettosa della pluralità. Ma soprattutto utile e seria per far sì che il dolore non sia un destino ineludibile per chi è malato cronico e neppure la morte l’unica via possibile di evasione dal dolore.

*Presidente nazionale Acli

 

Il contributo di Marco Cappato

Il motto della campagna – «Liberi fino alla fine», non «Finalmente liberi» – non punta certo a proporre la morte come liberazione da guai passeggeri della vita, ma a stabilire il diritto della persona affetta da sofferenza insopportabile ed irreversibile di esercitare la propria libertà di scelta fino alla fine della propria vita, eventualmente anche nel farsi aiutare da un medico a porre fine alla propria esistenza. Essendo il referendum solo abrogativo abbiamo potuto soltanto proporre la cancellazione del reato che condannerebbe fino a 15 anni di carcere il medico che facesse in Italia ciò che può invece fare legalmente un medico in Spagna. Le procedure e condizioni per accedere a tale diritto saranno invece compito del Parlamento.

AL NOSTRO CONGRESSO don Ettore Cannavera ha dichiarato: «Se a fronte di atroci sofferenze la decisione migliore per qualcuno è interrompere la vita, allora io gli dico… fallo serenamente, sarai benedetto dal Padre Eterno».
Ecco sull’eutanasia è ora di aprire un dibattito anche teologico all’interno della Chiesa cattolica, intesa non semplicemente come gerarchie vaticane ma come comunità dei credenti. Quel 52 per cento di praticanti assidui della messa che a nordest sono a favore della possibilità di un medico di terminare la vita del paziente su sua richiesta (fonte Ipsos, Il Gazzettino) indicano l’esistenza di quello che il grande filosofo e esponente dell’esistenzialismo cristiano Pietro Prini definiva «scisma sommerso». Ringrazio don Ettore Cannavera perché aiuta ad aprire finalmente quel dibattito all’interno della chiesa cattolica, a far emergere quello scisma.

NON CREDO CHE nella storia della Repubblica alcun referendum sia stato mai a tal punto preparato e dibattuto quanto questo. Il soggetto promotore del referendum – l’Associazione Luca Coscioni – ha tenuto due riunioni pubbliche del proprio consiglio generale e ha consultato alcuni dei principali giuristi italiani per elaborare il testo del quesito referendario. Ma soprattutto la decisione di procedere alla raccolta firme è il risultato di un processo lungo quindici anni passato per una legge di iniziativa popolare depositata 8 anni fa e sottoscritta da oltre 140.000 cittadini. Iniziò 15 anni fa quando il Presidente Napolitano risposte a Welby che «l’unico atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio» sul tema.

Il contributo di Mina Welby

E invece, come oggi la politica delegittima un organo come la Corte Costituzionale, allora si fece sorda anche ai richiami del Presidente della Repubblica. Ho sentito morire me stessa accanto a quell’eroe di mio marito, Piergiorgio Welby. Era il 20 dicembre 2006. Le tracce della sua sofferenza le trovo nei suoi scritti, nei suoi disegni. Lui mai un lamento, né con me, né con chi lo venne a trovare. All’accanimento terapeutico e a una sopravvivenza costrittiva da una macchina senza cuore seguivano, ancor peggio, le umiliazioni dettate dagli attestati di compassione percepibili come olio sulle ustioni.

ANCH’IO SONO una cattolica praticante, anch’io prima che mio marito si ammalasse forse non avrei parlato volentieri di eutanasia. Credo in Dio, la vita è il dono più grande che possiamo ricevere. Ma ho iniziato a distinguere l’amore dall’egoismo. A conoscere la parola libertà.
Una cosa che ha ferito profondamente la mamma di Piergiorgio fu la non concessione dei funerali in chiesa. La sua morte non era eutanasia e anche il catechismo (secondo l’articolo 2278 di quel testo) avvalorava la sua richiesta di non soffrire più. Punito nel momento della morte, mentre si assolvono anche i peggiori criminali. Proprio lui, disconosciuto da chi parla di amore perché voleva semplicemente smettere di subire le torture atroci che gli ha riservato la vita e una legge per tutti gli italiani.

Tutti amiamo la vita fin dove è vivibile. Vorrei capire da dove vengono quegli ipocriti anatemi sull’eliminare le persone incapaci, anziane. Discorsi vuoti che non prendono in considerazione il dramma e il vissuto del prossimo, fanno propaganda in maniera vile ed egoista. Non considerano il numero dei suicidi e delle eutanasie clandestine. Dove sono quelli che parlano di cultura dello scarto, di persone usa e getta quando un malato soffre? Di sicuro non accanto a loro, ma nelle proprie belle case o su uno yacht. Così come non c’è lo Stato, il primo ad abbandonare queste persone e le loro famiglie, non mettendole in condizioni di beneficiare dei sussidi necessari, e di una vita affrontabile con dignità. Chiediamo solo che a queste persone non venga tolta, oltre alla dignità, anche il diritto umano alla libertà.