Dunque alla fine, il Capitano che giocava ai soldatini è finito fuori bordo. Il Senato ha deciso a maggioranza di mandarlo a processo. Né vale la sceneggiata finale della Lega che non partecipa al voto (con la bizzarra motivazione del «rispetto per Matteo»), dopo che era ormai evidente che l’Aula avrebbe votato pollice verso.
Forse aveva sperato, per un breve momento, di quotare alla propria miserabile borsa i cattivi sentimenti di quanti (e non sono pochi) quei 131 naufraghi della Gregoretti avrebbero voluto vederli in pasto ai pesci. Ma i processi, si sa, sono percorsi scivolosi, non si vincono solo con le retoriche da spiaggia. E le motivazioni a difesa, alla prova della realtà, erano fragili: destinata a franare sotto un’onda di ridicolo quella di aver agito per amor di patria contrabbandando per sacra «difesa dei confini» (sic) la presa in ostaggio di 131 poveri cristi e il divieto d’attracco imposto a una nave militare italiana. Impropria quella basata sulla presunta collegialità di una decisione presa, al momento dei fatti, in totale solitudine, anzi con l’evidente intenzione di differenziarsi per crudeltà dalla collegialità di un governo che si stava preparando a denunciare per impotenza e ignavia (il divieto di sbarco, ricordiamolo, si è protratto fino al 31 luglio del 2019, otto giorni prima del proclama del Papeete)…
Un po’ penosa, infine, dal vago sapore di ritirata strategica, quella tesa a derubricare a semplice «rallentamento dello sbarco» quello che l’accusa considera «sequestro di persona» e che un uomo di mare che se ne intende, come il comandante de Falco, ha definito una «inutile crudeltà». Per tutto questo restiamo convinti che Matteo Salvini avrebbe fatto volentieri a meno di questo rinvio a giudizio, se solo i numeri gli avessero permesso di difendersi “dal processo” anziché “nel processo”. E che quella di ieri sia stata per lui un’ennesima sconfitta, in una catena ormai lunga.
Ora, se le cose (della politica, ma non solo) conservassero un qualche senso, una giornata così dovrebbe poter essere considerata una vittoria per la maggioranza giallo-rosa, che ha “messo sotto” il suo principale sfidante. Invece no.
In quello stesso pomeriggio il governo non ha mancato di mostrare tutte le proprie crepe, i dissapori interni e l’incapacità di decidere, l’avvitamento intorno al tormentone della proporzionale e le scaramucce di corridoio, cosicché le agenzie non avevano neppur fatto in tempo a battere per intero la notizia del voto al Senato, che questa è stata soppiantata da quella del voto alla Camera nelle commissioni congiunte Affari Costituzionali e Bilancio sul cosiddetto lodo Annibali che avrebbe dovuto congelare la riforma Bonafede grazie alla confluenza dei voti di Italia viva con quelli del Centrodestra. E che prepara una nuova possibile mina sottomarina sulla rotta del governo Conte la prossima settimana quando un emendamento di Forza Italia al decreto Intercettazioni riproporrà al Senato il ritorno alla Legge Orlando…
Al centro sempre lui: l’eterno Terminator. L’uomo che destabilizza tutto ciò che tocca, sia un partito politico come il Pd quando ne ha avuto la guida, sia una maggioranza eterogenea come quella attuale dopo che l’ha fatta nascere. L’altro Matteo: quello che per incomprimibile egotismo, per furia di visibilità o per coazione al dispetto, per un infantile desiderio di possesso o per primitivo istinto di aggressione è ormai visibilmente incompatibile con qualsivoglia collettivo. E che tuttavia si illude di essere l’ago della bilancia dell’equilibrio politico e istituzionale italiano. E forse lo è.
Il lodo Annibali è stato bocciato, gli sono mancati 9 voti (49 no a 40). Ma non è questo il punto: in fondo gli argomenti di Renzi contro Bonafede sono deboli esattamente come la difesa di Salvini contro il tribunale dei ministri. E concentrano le ragioni di tutti i colpevoli di potere nel tentativo, spesso riuscito, di evitare sentenze che li condannerebbero. Il fatto è che senza la fibrillazione degli equilibri politici e degli stessi assetti istituzionali la vicenda del bullo di Rignano precipiterebbe sotto la soglia di visibilità dei radar della politica e dei media. Per cui il rischio è che l’invettiva dello sconfitto della Gregoretti, secondo cui il Re (governo) sarebbe «nudo» – esposto alle vergogne della sua inconsistenza e paralisi – possa essere tragicamente inverata da chi quel «sovrano» dovrebbe conservare in salute e invece si adopera per spogliarlo esso stesso.
È la «maledizione dei due Matteo» che continua a colpire: entrambi sconfitti, presi nella spirale della propria passione di sé. Ed entrambi capaci di trascinare tutti noi nella propria deriva autodistruttiva, se non saremo capaci di tener alta la guardia nei confronti dell’uno e dell’altro.