Alexander Stille: «L’eredità di Trump rischia di pesare ancora a lungo»

Giornalista e scrittore newyorkese, attento osservatore della politica statunitense come di quella italiana, ha vissuto a lungo nel nostro Paese dove ha scritto del fenomeno Berlusconi (per Garzanti) come delle persecuzioni antisemite durante il fascismo, Alexander Stille è rientrato da alcuni anni a New York per insegnare giornalismo alla Columbia University.

Biden ha vinto e Trump ha perso, ma complessivamente quale messaggio è uscito dalle urne?
Ci troviamo in presenza di un risultato per certi versi paradossale. Da un lato Joe Biden ha raccolto il numero di voti più alto dell’intera storia americana, a dimostrazione del fatto che la spinta dell’elettorato democratico per mandare un messaggio negativo nei confronti di Trump è stata davvero forte. Ma, dall’altro, bisogna riconoscere che anche a destra si è registrato un aumento dell’affluenza. 70 milioni di americani hanno detto un «sì» con il punto esclamativo ai quattro anni di potere di Trump, malgrado i 230mila morti di Covid, l’impeachment e tutto il resto: per loro si poteva continuare così. Perciò il primo segnale che è arrivato ci parla di un Paese profondamente diviso.

Biden ha vinto ma 70 milioni di americani hanno detto un «sì» con il punto esclamativo agli anni  di potere di The Donald. Un segnale che il Paese è profondamente diviso

Una divisione che peserà sulla politica della presidenza Biden?
Temo proprio di sì. Gli elettori democratici speravano in un rifiuto molto netto non solo di Trump ma anche del trumpismo: un rifiuto del nazionalismo spinto, del razzismo, dell’incompetenza mostrata perfino nell’affrontare la pandemia, della corruzione evidente dell’amministrazione. E in molti – me compreso – speravano che sarebbero stati puniti anche i deputati e i senatori repubblicani che hanno permesso che prendessero piede quegli elementi autoritari e anti-democratici che hanno caratterizzato gli anni di Trump. Solo che questo rifiuto non si è espresso nelle proporzioni che si ci poteva aspettare: i repubblicani possono così trarre la lezione che stare vicino a Trump ha comunque pagato e continuare con spregiudicatezza a proseguire su quella strada. Per fare un esempio, un personaggio di primo piano della destra come Mitch McConnell, leader del Gop al Senato, che ha perseguito una linea improntata all’ostruzionismo più totale durante la presidenza Obama e ha appoggiato le scelte di Trump, è stato rieletto e non ha pagato alcun prezzo politico. Quindi penso sia molto difficile che cambierà linea trasformandosi in una figura dialogante in nome del bene del Paese. Del resto, ancora adesso i big del Partito repubblicano non hanno riconosciuto la vittoria di Biden.

Tutto ciò potrà decidere dei margini di manovra dell’amministrazione?
Senza dubbio. Se il Senato resterà dominato dai repubblicani – lo si saprà solo a gennaio -, Biden dovrà cercare la collaborazione della destra per far passare le sue proposte. Sul sostegno economico alle vittime del Covid e a chi ha perso casa o lavoro a causa della pandemia, sull’utilizzo dei vaccini o sul varo di un piano di infrastrutture – che era stato per altro promesso anche da Trump -, tutte misure non considerate «troppo di sinistra», il Gop potrebbe anche convergere. Ma su temi cari ai democratici come l’allargamento della copertura sanitaria a tutti i cittadini, l’aumento delle tasse ai più ricchi o la lotta al cambiamento climatico, è difficile che possa mediare.

Se il Senato resterà dominato dai repubblicani, i Dem dovranno cercare la loro collaborazione. Sulle proposte giudicate «troppo di sinistra» su sanità, fisco e clima l’accordo è difficile

Lei insegna giornalismo alla Columbia University, come giudica il ruolo di media nella vita recente del Paese?
La presidenza Trump ha messo i media in una situazione nuova, nel senso che non si era mai visto un politico, tanto più un presidente, che mentiva in modo così spudorato. In passato chi lo aveva fatto era stato sanzionato prima o poi, mentre per Trump fino ad ora non è accaduto. E quando il New York Times ha cominciato a definire «menzogne» le affermazioni false di Trump, quest’ultimo si è rivolto ai propri sostenitori, dicendo: «Vedete, hanno dei pregiudizi nei miei confronti. Sono di parte». Più in generale, credo si possa dire che i media americani hanno fatto molta fatica a capire il trumpismo: non il personaggio in sé, ma il perché milioni di americani hanno mostrato votando per lui sfiducia e profondo disagio nei confronti della nostra vita politica. E su questo c’è ancora un grande lavoro da fare.

In Italia, lei ha studiato a lungo il fenomeno del berlusconismo. Senza azzardare un paragone diretto, cosa ci dice quella vicenda rispetto al «caso» Trump?
Se paragonato al presidente americano, il Cavaliere rischia di apparire come De Gaulle, Churchill o Roosevelt messi insieme, anche se in realtà le sue ambizioni erano ben lontane da quelle di Trump. Ciò detto, Berlusconi ha in qualche modo prefigurato un fenomeno come quello del trumpismo, creando grazie al suo potere mediatico una sorta di «realtà alternativa» rispetto a quella del mondo circostante. Così, ad esempio, per oltre quindici anni milioni di italiani sono stati spinti a credere che non ci fosse nulla di vero nelle accuse che venivano mosse al Cavaliere. Più o meno la stessa formula utilizzata da Trump che ancora adesso continua a ripetere che ci sono prove schiaccianti di brogli elettorali che però nessuno ha visto. Allo stesso modo, la figura del miliardario dall’appeal interclassista che si rappresenta come «un uomo del popolo» è qualcosa che Berlusconi ha sperimentato per primo e a cui Trump, anche se inconsapevolmente, si è in qualche modo ispirato.

 

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