La libia e i ritardi italiani.

di Franco Venturini

Se davvero Fayez al Serraj e Khalifa Haftar si incontreranno oggi all’Eliseo su invito di Emmanuel Macron, l’Italia farà bene a tacitare ogni stizza diplomatica e a favorire piuttosto la ricerca di nuove formule per stabilizzare la Libia. In uno spirito di collaborazione che tanto Parigi quanto il ministro Alfano hanno ieri garantito per prevenire possibili malumori. Dopotutto nessun Paese subisce quanto il nostro le conseguenze di quel caos libico che facilita l’arrivo in Italia di migliaia di diseredati africani. Nessuno, in quella straziante processione, ha salvato tante vite quante ne abbiamo salvate noi. E nessuno più dell’Italia si è adoperato in questi anni, con alterna fortuna, a favore di una conciliazione interna libica tra Cirenaica e Tripolitania, milizie e tribù, islamisti e fratelli musulmani. Non possono dunque esistere timori di emarginazione o complessi di inferiorità, men che meno nei confronti di una Francia che in Libia ha fatto spesso i suoi giochi mentre proclamava di aderire pienamente alla stessa strategia dell’Italia. Semmai, l’occasione è buona per riflettere su questa strategia. Oggi, per l’Italia e non solo per l’Italia, la Libia a pezzi è fonte di tre minacce immediate e gravi. La prima è la crudele «assistenza» che viene prestata ai migranti per farli morire in mare o arrivare sulle nostre coste. La seconda è la possibilità molto concreta che i tagliagole dell’Isis cacciati da Sirte si ricompattino in zone desertiche, magari ricevendo rinforzi da chi scappa da Mosul e da Raqqa. La terza è il pericolo che la rottura tra il Qatar e il fronte guidato dall’Arabia Saudita getti olio sul fuoco delle contrapposizioni libiche, visto che il Qatar e la Turchia sono vicini a Tripoli (cioè a Serraj) mentre i sauditi, l’Egitto e gli Emirati appoggiano Bengasi (cioè Haftar). Basta ricordare queste circostanze per comprendere come l’approccio italiano, fortemente legato alle scelte non sempre felici dell’Onu, agli accordi di Skyrat del dicembre 2015 e al mai avvenuto consolidamento politico-militare del primo ministro Serraj, appaia poco in sintonia con la situazione reale in Libia e con l’impazienza di alcune cancellerie occidentali (compresa la Casa Bianca di Trump, con il quale Macron ha appena parlato anche di sicurezza nel Mediterraneo). Intendiamoci, bene ha fatto il ministro Minniti a porre il problema della Libia unitamente a quello dei migranti, e potrebbe portare risultati importanti il suo tentativo di dialogo con le tribù del Fezzan. Ed è anche vero che l’Italia, seppur tardivamente, cerca di coinvolgere Haftar in un progetto di conciliazione nazionale. Ma nella nostra politica libica tende a prevalere, agli occhi degli interlocutori, una immagine di parzialità filo-Serraj accumulata negli anni scorsi e oggi trasformatasi in ostacolo operativo. Del resto non siamo i soli a viaggiare in ritardo. Se così non fosse altri prima di Macron avrebbero organizzato un incontro tra Serraj e Haftar, a Roma, a Parigi o a Bruxelles. Il capo dell’Eliseo ha preferito dare all’iniziativa una impronta francese anziché europea. Peccato, per l’Europa è una occasione persa. Ma il presidente transalpino ha visto giusto, è andato a occupare un vuoto di iniziativa politica in Libia (con l’eccezione già citata del Fezzan) che nemmeno l’emergenza migranti denunciata a gran voce dall’Italia era riuscita a scuotere. Ed è per questo che la sua mossa deve essere valutata positivamente anche dall’Italia, nella speranza che contribuisca a innescare una road map comprendente la revisione concordata degli accordi di Skyrat, elezioni generali, un vertice politico nazionale del quale Haftar faccia parte e la nascita di un unico esercito libico. Speranza per il medio-lungo termine, è il caso di sottolineare. Perché Emmanuel Macron si illuderebbe non poco se pensasse che l’incontro Serraj-Haftar all’Eliseo (il secondo, dopo l’improduttivo abboccamento di Abu Dhabi in maggio) sia in grado di superare da subito le infinite complessità del rompicapo libico. Basta pensare alle milizie come quella di Misurata che odiano Haftar e che certo non disarmeranno, o agli interessi di gruppi contrapposti (petrolio e gas, e anche atroce sfruttamento dei migranti), per misurare l’enorme distanza che resta da percorrere. Ma il traguardo della stabilizzazione è comune, anzi è indispensabile soprattutto all’Italia. Per questo dobbiamo partecipare alla speranza dell’Eliseo. Con stile.

 

  • Martedì 25 Luglio, 2017
  • CORRIERE DELLA SERA