La città dei politici vittorie e schiaffi nella corsa ai voti

La lunga vigilia delle regionali, i libri di Ballini sulle sfide dei partiti tra ’ 800 e ’ 900: spunti e personaggi per ricostruire le lotte del passato
di Fulvio Conti Come il maggiore Drogo del Deserto dei Tartari, asserragliato nella Fortezza Bastiani, Eugenio Giani aspetta invano che arrivi il Nemico. Ma la coalizione di destra tarda a indicare il nome dello sfidante e la campagna elettorale si consuma in questa attesa infinita assumendo aspetti surreali. Renzi dal canto suo lancia fra le ruote del governo l’idea del “sindaco d’Italia”, ennesima proposta di riforma istituzionale che avrebbe probabilmente lo stesso esito nefasto di quella frantumatasi contro lo scoglio referendario del 4 dicembre 2016.
Queste considerazioni sul presente invitano a uno sguardo comparativo col passato. E ne offrono lo spunto alcuni libri recenti sulla lotta politica a Firenze fra Otto e Novecento, pubblicati a cura di Pier Luigi Ballini, già ordinario di Storia contemporanea e assessore alla cultura nella giunta Morales nei primi anni novanta. Libri che colmano un vuoto di conoscenze sulla storia dell’élite amministrativa locale e si prestano a riflessioni interessanti. Per esempio, ci dicono molto sulla lunga permanenza al potere del ceto aristocratico. La fine della dinastia lorenese e la nascita del regno d’Italia non segnarono alcuna discontinuità. Dopo l’unità tutti i sindaci furono esponenti della nobiltà cittadina: Cambray Digny, Ginori, Peruzzi, Bastogi, Corsini, Torrigiani, Guicciardini. Si dovette attendere il 1902 perché in Palazzo Vecchio s’insediasse il primo sindaco di estrazione borghese, Silvio Berti, che conservò la carica solo per pochi mesi prima di lasciarla nuovamente a un nobile, il marchese Niccolini.
Quasi sempre essi ebbero l’appoggio più o meno dichiarato dei cattolici, i quali partecipavano alle elezioni amministrative ma disertavano quelle politiche per non legittimare col loro voto il Regno sabaudo che aveva distrutto lo Stato pontificio. Certo si trattò di un appoggio fortemente condizionante, caratterizzato da tratti di rigido integralismo. Nel 1895 i cattolici rifiutarono di appoggiare la lista liberale con motivazioni che, pur facendo uno sforzo di contestualizzazione, appaiono sconcertanti e la dicono lunga sulle radici dell’antisemitismo che ancora si annida in certa destra intrisa di tradizionalismo religioso. « Noi non ammettiamo – si legge nel giornale L’Unità cattolica del 2 luglio 1895 – che in una città italiana gli elettori cattolici eleggano a propri rappresentanti tre ebrei».
Nel tornante di fine secolo sulla città cominciò però a soffiare aria nuova. Nel 1897 nel collegio di Sesto fu eletto il primo deputato socialista della Toscana, Pescetti, che guarda caso sconfisse il deputato uscente, il marchese Carlo Ginori, proprio l’anno dopo che questi aveva venduto la manifattura di Doccia al milanese Richard ( con il conseguente cambio di nome della famosa fabbrica di porcellane in Richard- Ginori). Nel 1899, dopo i tumulti popolari del ’ 98 e la dura repressione poliziesca, si ebbero le prime prove di alleanza fra i partiti di sinistra e la campagna elettorale s’infiammò. I giornali riferiscono di un pubblico schiaffeggiamento avvenuto davanti al Gambrinus fra il liberale Gelli e il socialista Pieraccini, futuro sindaco di Firenze dopo la Liberazione, che finì nelle aule dei tribunali. Si sperimentarono poi inedite modalità di propaganda: « brigate di velocipedisti» percorsero la città gettando manifesti e strisce di carta con i nomi dei candidati. I monarchici, scrive la Nazione, noleggiarono « alcune diligenze che erano adornate di grandi cartelli e di bandiere tricolori » . I socialisti risposero piazzando qua e là «alcune ragazze a presentare schede agli elettori » . In occasione delle elezioni amministrative del 1902 il solito profluvio di manifesti invase la città, molti di essi attaccati addirittura ai fili della rete tramviaria. La ” reclame elettorale” non risparmiò neppure il lastricato dei marciapiedi, che fu « istoriato con iscrizioni ed eccitamenti antimonarchici, socialisti, repubblicani ».
Nel 1907, quando i popolari conquistarono Palazzo Vecchio, la composizione sociale del Consiglio comunale cambiò radicalmente. S’irrobustì la componente medio- alto borghese, in particolare entrarono in Consiglio numerosi luminari del mondo medico come i patologi Banti e Lustig e l’anatomista Chiarugi. Giulio Chiarugi fu anche sindaco fra il 1909 e il 1910. Inutile dire che con la vittoria dei popolari (radicali, repubblicani, socialisti) il Consiglio si riempì di massoni: nel 1907 solo fra i consiglieri eletti nelle loro fila se ne contavano ben diciotto. E un massone importante, Domizio Torrigiani, prossimo gran maestro del Grande Oriente d’Italia, nel 1910 diresse il quotidiano ufficiale del blocco popolare. Si chiamava L’Opinione democratica e si stampava in via Martelli, a due passi dal Duomo. Non servì però a impedire la disfatta dei popolari nella doppia tornata elettorale del 1910 che riconsegnò il Comune ai clerico- moderati. Contro la sinistra fu lanciata l’accusa di sempre: aver attuato una politica di spesa pubblica che aveva aperto una voragine nel bilancio. La campagna elettorale fu ancora una volta infuocata, con scontri e violenze tra militanti degli opposti schieramenti che si conclusero con feriti e arresti. A farne le spese fu di nuovo Pieraccini, rimasto vittima di un’aggressione. Ma si ebbero anche inedite modalità di propaganda, rivelatrici della modernità che irrompeva sulla scena politica. È il caso del contradditorio ” all’americana” che si tenne al Teatro della Pergola fra candidati moderati e popolari, oppure dell’uso massiccio delle automobili al posto dei velocipedi. A vincere in ogni caso fu il vecchio mondo politico e a Palazzo Vecchio tornò per l’ennesima volta un aristocratico, il marchese Filippo Corsini.
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