La bellezza più Bukowski e Jodice creò Corinne

 

Nel 2016 un’ampia retrospettiva al Museo Madre di Napoli ha ripercorso il lungo itinerario di Mimmo Jodice. Un’avventura che sembra oscillare tra tensioni diverse. Un’intensa sensibilità documentaristica: l’immagine nasce sempre dal dialogo con il reale. Uno struggente legame con le radici: con Napoli, con il Mediterraneo. Un imprescindibile confronto con la storia: perlustrata nei suoi inattesi affioramenti, nelle rovine, nelle macerie. Infine, una vocazione metafisica. Ed è proprio qui il segreto della filosofia di Jodice. Il quale, sulle orme della poetica dechirichiana, muove sempre da una stringente domanda intorno ai misteri del visibile. Che, però, non si limita mai a testimoniare. Dopo averlo «filmato» con uno sguardo consapevolmente freddo, lo distanzia. Lo coglie quasi in contropiede. Sembra sorprenderlo nel momento in cui si mostra altro da sé. Lo rende lirico. Lo sospende in un bianco e nero silente. Lo situa in un alveo non contaminato da voci, né da echi. Per consegnarlo a noi in un’attesa senza fine. Si pensi a Mediterraneo, il meraviglioso opus magnum di Jodice.

Dietro questa urgenza metafisica si nascondono profonde intenzioni avanguardistiche. Evidenti soprattutto negli esercizi degli anni Sessanta e Settanta, che risentono dell’influenza delle esperienze del minimalismo e del concettualismo. In problematica sintonia con quella che Filiberto Menna in un importante libro del 1975 definì «la linea analitica dell’arte moderna», Jodice si interroga sul rapporto tra registrazione del vero e rielaborazione dello stesso vero, sul senso e sulle regole del linguaggio visivo, sull’autonomia e sulle possibilità espressive della pratica fotografica. Come accade nelle sperimentazioni realizzate tra la fine degli anni Settanta e la metà del decennio successivo.

Alcuni episodi rivelatori. I paesaggi infranti, quelli stroboscopici, quelli in movimento. E, poi, quelli «interrotti»: l’immagine di un determinato contesto urbano viene suddivisa in diverse parti, ripetendo manualmente la scelta del taglio insita in ogni scatto; poi, si accostano i vari frammenti leggermente sfalsati, in modo da far emergere un collage decostruito e instabile. E ancora: i fotomontaggi, gli strappi, le solarizzazioni, le sovrapposizioni tra i negativi, le giustapposizioni tra riprese diverse. In filigrana, tante memorie storico-artistiche: l’action painting di Pollock, l’action planning di Matta-Clark, ma anche la metafisica di Morandi.

Passaggio decisivo di quella stagione segnata da passioni brucianti, i ritratti e i nudi. Come Corinne, il lavoro del 1978 finora mai esposto né pubblicato che Jodice ha selezionato per il ciclo su arte e poesia de «la Lettura». Un’opera dietro cui si cela una sorta di cerimonia rituale. Dapprima, Jodice sceglie una modella: in questo caso, Corinne. La mette in posa in un set difficile da riconoscere. Poi scatta, affidandosi ai tempi lunghi richiesti dalla fotografia analogica. Solo dopo inizia la sua azione artistica. Si rifugia nella camera oscura. Lì, da solo, avvia una danza di gesti controllati, ma impossibili da calcolare. Sviluppa e stampa l’immagine, manipolandola e piegandola, fino a rendere indistinto lo sfondo. Memore della lezione di Man Ray e di Kertész, la spinge verso i territori del figurabile. Infine, uscito da quella sorta di cella monastica, l’artista decide di sottoporre il ritratto a un’ulteriore aggressione: quasi a un martirio. Lo taglia. Una liturgia che svela le ragioni analitiche sottese alla sua ricerca.

Si tratta di una ricerca che, tuttavia, non si spinge mai verso le vette dell’impersonale. Ma affonda le proprie radici in segreti rimandi letterari. Spesso, in quel periodo, Jodice legge libri di poesia, indugiando su situazioni che gli appaiono in misteriosa consonanza con quanto sta facendo nel suo lavoro. In particolare, lo affascinano i versi di In the Morning di Cesare Pavese: «Lo spiraglio dell’alba/ respira la tua bocca/ (…) Luce grigia i tuoi occhi…».

Ma non solo. Nell’ottobre del 1970, Jodice organizza la sua prima personale a Milano presso la galleria Il Diaframma. È accompagnata da un piccolo catalogo introdotto da un testo di Cesare Zavattini, che elogia i nudi «involontariamente perfino un po’ pornografici», capaci di ricongiungere chi osserva, «attraverso un capezzolo o un culo femminile o maschile o una gamba all’unicità del creato con o senza il relativo creatore».

Questa intuizione critica porta Jodice a «incontrare» un autore all’apparenza molto lontano da lui: uno scrittore maledetto, eccessivo, a tratti volgare, artefice di storie sgrammaticate e deliranti, dense di echi hemingwayani, fondate sulla combinazione tra registri diversi: il pornografico e il comico, il crudele e il cinico, lo spietato e l’ironico. Un po’ per caso, Jodice si imbatte in alcuni celebri versi di Charles Bukowski, felice incrocio tra romanticismo e understatement: «Quando Dio creò l’amore non ci ha aiutato molto/ (…) Quando creò te distesa a letto/ sapeva cosa stava facendo/ era ubriaco e su di giri/ e creò le montagne e il mare e il fuoco/ allo stesso tempo./ Ha fatto qualche errore/ ma quando creò te distesa a letto/ fece tutto il Suo Sacro Universo».

Parole che sembrano risuonare in Corinne. Reperto estratto da un ricco archivio di memorie e di visioni. Come una sineddoche fotografica. Omaggio alla bellezza della donna. Ma, soprattutto, per dirla con Bukowski, omaggio a «tutto il Suo Sacro Universo».

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