Leggo Vedova, l’operaio dell’arte

 

 

«Tentare di spiegare un quadro diventa come spiegare la tua vita. E questo a un certo momento ti diventa impossibile. È una registrazione nel cuore del mondo, nel cuore del mio mondo. E allora è così, insomma, ogni giorno questa pagina… questa pagina che in un continuum viene consegnata a testimoniare che cosa? A testimoniare non soltanto di me, ma di un uomo che vive in un certo modo il suo tempo e si aggancia in qualche modo nel suo tempo». Emilio Vedova (Venezia, 1919-2006) appare sullo schermo, la lunga barba bianca, gli occhiali dalla montatura spessa. Un video d’archivio che ora torna nel bel documentario Emilio Vedova. Dalla parte del naufragio prodotto dalla Fondazione Emilio e Annabianca Vedova e realizzato, nel centenario della nascita dell’artista, da Twin Studio con la regia di Tomaso Pessina.

Il film arriva il 4 settembre nella Venezia di Emilio Vedova in occasione della Mostra del Cinema dove sarà presentato nelle Notti Veneziane delle Giornate degli Autori, per poi approdare su Sky Arte. Sullo schermo i filmati di Vedova si alternano alle interviste ad amici, colleghi, critici come Alfredo Bianchini (presidente della Fondazione Vedova), lo storico dell’arte Germano Celant, Karole Vail (direttrice Guggenheim Foundation e nipote di Peggy), Fabrizio Gazzarri (storico collaboratore) e il pittore tedesco Georg Baselitz, che ha curato la mostra in corso (fino al 3 novembre) ai Magazzini del Sale. Tutti ritratti in stretto contatto con le opere di Vedova. «L’idea viene da lontano — racconta Alfredo Bianchini a “la Lettura” —. Nell’epoca dei nativi digitali, il film sintetizza l’apporto critico, artistico e umano di Vedova. È un libro di 68 minuti». «Il film parla del segno di Vedova», aggiunge il regista: «Per rintracciarlo abbiamo scelto di ascoltare la sua voce».

Ed ecco che il racconto diretto e vigoroso della formazione dell’artista emerge dalla voce di Vedova, non soltanto attraverso i filmati, le registrazioni audio, ma anche attraverso la sue Pagine di Diario, in un amalgama poetico e impulsivo che evoca in ogni passaggio l’approccio di Vedova alle sue tele. A restituire le parole del diario agli spettatori è Toni Servillo — che a Venezia ha presentato anche il film di Igort 5 è il numero perfetto, ora nelle sale — davanti a un leggio e un microfono, circondato dalle gigantesche opere del pittore veneziano.

Come è entrato in contatto con l’opera di Emilio Vedova e che cosa l’ha portata a partecipare al documentario?

«Conoscevo e amavo già da prima la pittura di Vedova e per questo ho partecipato con grande piacere a questo documentario sulla sua vicenda artistica e umana, avendo la possibilità di leggere le pagine del suo diario che ci aprono il suo cuore, la sua mente, il suo laboratorio, la sua vita in una maniera molto affascinante. Vedova è una figura gigantesca sia dal punto di vista fisico che dal punto di vista dell’autorità nel panorama artistico del Novecento. Dagli anni Cinquanta in poi ha rilanciato le arti figurative proiettandosi in un futuro che lo ha collocato tra i grandi della pittura contemporanea. Credo ci siano tre ragioni per cui artisti come Vedova rappresentino per me il punto assoluto di riferimento. Il primo motivo è che Vedova, come pochi altri, attraverso il suo esempio ci libera da quel senso di colpa che a volte abbiamo nei confronti della realtà; invita a guardare oltre — una parola che lui usava molto spesso. Questo non significa ignorare la realtà, ma restituirla attraverso il linguaggio dell’arte. In secondo luogo perché di fronte ad artisti come Emilio Vedova possiamo avere ancora la sensazione di non essere soltanto degli inerti ammiratori come oggi spesso avviene al cinema, a teatro, sui social e a volte anche nelle gallerie d’arte; artisti come Vedova non vogliono essere ammirati, vogliono sconvolgere con la forza dell’originalità del loro linguaggio. E infine, Vedova appartiene a quella eletta schiera di artisti che dal cuore della loro esperienza esistenziale ci dicono qualcosa a cui noi non avremmo mai pensato. Per questi tre motivi un uomo di teatro, un musicista, uno scrittore non può fare a meno di venire in contatto con artisti come Vedova e pochi altri; che attraverso i tre punti che ho elencato offrono la possibilità di avere una mente libera nei confronti del proprio lavoro e dell’articolazione del proprio linguaggio».

Che cosa l’ha colpita dei diari di Emilio Vedova?

«Il cuore dell’esperienza esistenziale di Vedova è molto ben narrato nei suoi diari a cui affida un racconto molto interessante di sé ma anche dell’Italia in cui è vissuto. I diari sono il racconto delle origini di quest’uomo nato in una famiglia operaia; il contatto nello scantinato di casa con le polveri, le terre, i colori usati dal padre per lavoro; la nascita di quella relazione così forte con la materia. La discendenza, sempre rivendicata, dal suo padre artistico, Tintoretto. Dai diari emerge come questa origine operaia sia poi diventata un elemento forte della pittura di Vedova, basta guardare alle sue mani, al suo volto; il modo in cui disegnava, in cui si allontanava dalla tela; il modo in cui riteneva che la tela fosse un campo di esperienza e il lavoro dell’artista una continua inchiesta sull’uomo. E poi Venezia… “Mi sono trovato nell’infanzia incastrato in queste calli”, diceva Vedova, come se percepisse la netta sensazione che nell’esistenza siamo gettati. L’impasto di calli, ombre, luci, il grigio delle chiese che ha alimentato la sua infanzia e la carriera di pittore. Il racconto disincantato della vita poverissima di bohème e dell’incontro con i mecenati, Peggy Guggenheim che riportava il suo nome scritto su un pacchetto di sigarette… C’è la Resistenza, durante la quale Vedova racconta di avere sempre e solo sparato in aria, urlando; riteneva che la verità fosse relativa, ma a proposito della Resistenza parla di verità. E poi l’atmosfera culturale all’interno del Pci, il suo affrancarsi dalla linea dettata da Togliatti e accolta dall’amico Guttuso. La moglie Annabianca, in cui l’artista imprendibile trova colei che lo assiste completamente. È poi molto bello sentire il linguaggio che Vedova adopera: alla vigilia di un grande cambiamento dice che sente rompersi dentro di sé il ghiaccio; sente che la pittura scaturisce dal suo intimo in forma di luce e di ombra e sente la necessità di proiettarla nel futuro contro un Novecento che gli sembrava in quarantena. E ancora il rapporto con il teatro, da cui emerge la necessità che la sua pittura invada lo spazio».

Per il film, ha letto i diari proprio tra le opere di Vedova allestite da Baselitz nel Magazzino del Sale della Fondazione, restaurato da Renzo Piano.

«Appena entrati un meccanismo fa in modo che siano i quadri a venire verso te; come desiderava Vedova, il quadro si avvicina come un personaggio. Leggere le sue parole in quello spazio è stata un’emozione particolarmente grande».

Dalle parole di Vedova emerge un ritmo molto forte che percorre tutto il film. «Il ritmo di Vedova», come lo definisce Alfredo Bianchini.

«Nella lettura ho cercato di conservare quella tensione febbrile che emerge dai filmati che lo ritraggono al lavoro o mentre parla del suo lavoro. Ci sono parole che lui usa molto spesso — oltre, naturalmente, e poi emergenza, lacerazione… E queste considerazioni avevano bisogno di essere lette e riconsegnate con quella tensione appassionata che appartiene all’autentico Vedova. Mi sono messo al servizio di un artista a cui dobbiamo guardare con un debito di riconoscimento, come qualcuno che traccia la strada e che indica la direzione».

Qual è il suo rapporto con l’arte contemporanea?

«Con la mia compagnia, Teatri Uniti, ho avuto la fortuna di muovere i primi passi all’interno di una galleria d’arte gloriosa, quella di Lucio Amelio a Piazza dei Martiri nel cuore di Napoli. Fin da ragazzo ho avuto modo di conoscere le opere di Joseph Beuys, di Cy Twombly, quindi di Vedova, l’Arte Povera, e poi la Transavanguardia. Non credo che si possa fare teatro o cinema senza mutuare — sento di dire un’ovvietà — dalle arti visive, dalla musica (che per me è molto importante), dalla letteratura, conoscenze che nutrono il tuo percorso con le loro conquiste».

Il cinema racconta sempre di più l’arte.

«Il merito di questo documentario è che fa parlare Vedova, i suoi diari, i suoi quadri. Fa parlare direttamente l’arte».

 

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