Jonathan Safran Foer: “Scriviamo il futuro col popolo di Greta”

Nel nuovo libro “We Are the Weather” lo scrittore aggiunge temi alla sua riflessione sull’ambiente

Jonathan Safran Foer fa una pausa, abbassa la voce, e avverte: «Non è impossibile immaginare che ad un certo punto scoppi la violenza». Sta parlando del rischio che gli effetti del riscaldamento globale, a cui ha dedicato il suo ultimo libro We Are the Weather, diventino così gravi da spingere la gente a rispondere con la forza, per costringere i politici ad agire.

Cosa pensa della marcia globale di venerdì?

«In parte è stata frutto dell’influenza di Greta Thunberg, grande, potente e magnifica, e del lavoro fatto da altri per 50 anni, allo scopo di attirare l’attenzione su un tema così difficile. Ha ispirato milioni di persone, soprattutto giovani».

Perché gli Usa sembrano meno sensibili all’emergenza dell’Europa?

«Ci sono molte spiegazioni, ma in genere chi è più colpevole di un problema è anche meno determinato a risolverlo, e nessuno è più colpevole degli Usa per i cambiamenti climatici. La nostra leadership poi ha preso la crisi meno seriamente di altri paesi. Storicamente l’America è sempre stata al fronte dei movimenti per la giustizia sociale, ma su questo siamo la retroguardia, e ciò dimostra anche la diminuzione dell’influenza globale degli Usa».

I giovani della marcia hanno minacciato di punire i politici con il voto, se non faranno nulla. È una potenziale svolta?

«No, molti di loro non voteranno prima di un paio d’anni, e i politici non guardano così lontano. Il problema va risolto prima. Non c’è tempo per aspettare che un quattordicenne arrivi al voto, l’influenza va esercitata ora».

Il suo libro sollecita la responsabilità personale, cioè le cose che possiamo fare tutti subito, come mangiare meno carne. Questa generazione è più pronta a sacrificarsi?

«Assolutamente sì, e le statistiche lo provano. Nelle università americane non ci sono mai stati così tanti vegetariani, perché i giovani sono più idealisti e meno ancorati alle abitudini».

Un individuo che non accetta di mangiare meno carne è colpevole come un imprenditore che non vuole rischiare i suoi profitti?

«Sì, ma è un errore tenere distinte le due aree della responsabilità individuale e pubblica. Le scelte personali della gente hanno un impatto sul comportamento dei governi e le imprese, e i governi possono rendere più facili le nostre decisioni, ad esempio facendo pagare la carne quanto costa davvero, senza tenere i prezzi artificialmente bassi. Le marce sono utili a questo scopo, ma serve anche togliere il nostro supporto finanziario».

Nel libro scrive che dovremmo cambiare quattro aspetti delle nostre vite, per avere un impatto positivo sui cambiamenti climatici: volare meno, limitare o mutare l’uso delle auto, fare meno figli, e mangiare meno carne.

«Siamo oltre il punto in cui possiamo scegliere, tra adottare una dieta o scrivere al nostro deputato, usare l’auto elettrica o installare i pannelli solari. Dobbiamo fare tutto ciò che possiamo. Come individui abbiamo limiti, ma invece di farci paralizzare dalla paura di essere ipocriti o incompleti, dobbiamo farci spingere dalla paura di non agire».

L’Intergovernmental Panel on Climate Change dell’Onu dice che gli abitanti dei paesi ricchi dovrebbero ridurre del 90% il consumo di carne, e del 60% di latticini. Come si convince la gente a farlo?

«Non è difficile convincere che è necessario, ma è difficile farlo. È necessario perché lo prova la scienza, ma ognuno dovrebbe trovare la strategia che funziona per sé».

Lei suggerisce di non mangiare più carne prima delle 6 della sera.

«Mi sembra una via pratica per riuscire a limitare il consumo, ma ce ne sono anche altre. L’importante non è che tutti abbiano lo stesso piano, ma che tutti ne abbiano uno».

L’Onu dice che il tempo dei negoziati è finito: ora bisogna agire, e i paesi devono triplicare i loro impegni. È d’accordo?

«Senza dubbio. Chiunque conosca la scienza sa che dobbiamo agire su scala massiccia, in poco tempo, come mai prima».

Cosa si aspetta dal vertice di oggi all’Onu?

«Poco, nulla dagli Usa. Però la volontà della gente può diventare tanto forte da non essere più ignorabile. La situazione è così intollerabile, che fare nulla non è più un’opzione. Serviranno marce e boicottaggi di prodotti. Non è impossibile immaginare che scoppi la violenza. Spero non succeda, non penso sarebbe una buona idea, ma stiamo raggiungendo un punto critico».

Se non accade potrebbero esplodere reazioni violente?

«C’è già una reazione violenta. Vediamo l’estrema violenza che provoca centinaia di migliaia di vittime. Le reazioni estreme della natura vanno affrontare con misure estreme degli uomini».

Il presidente Trump nega il problema, pagherà alle elezioni?

«Penso di sì. Bisogna notare che lui è un’aberrazione, perché il 91% degli americani crede alla scienza sul clima e il 70%, inclusa la maggioranza dei repubblicani, voleva restare nell’accordo di Parigi. Però è un errore anche ammettere il problema e non fare. Se Hillary fosse presidente saremmo ancora nell’accordo di Parigi, ma non avremmo centrato gli obiettivi, come l’Italia. Nessuno li ha centrati, perché non facciamo abbastanza. Trump comunque è l’ambientalista più importante, perché la sua ignoranza obbliga la gente alla saggezza, e la sua apatia spinge all’azione. Greta è stata l’origine delle marce, ma Trump è più responsabile di lei per il successo che hanno avuto».

Se perderà le elezioni del 2020, cambierà qualcosa per il clima?

«Spero e credo che questo tema sarà decisivo, ma non sono sicuro che chi vincerà prenderà i provvedimenti necessari. Perciò dobbiamo continuare a fare pressione in tutto il mondo». 

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