Il respiro sospeso delle nostre foreste

Giorgio Vacchiano ha quarant’anni ed è ricercatore all’università Statale di Milano. I suoi studi riguardano le foreste e la loro capacità di resistere alle calamità, come ha raccontato in La resilienza del bosco. Storie di foreste che cambiano il pianeta (Mondadori, 2019). Sono proprio questi i temi che toccherà al festival Food and Science di Mantova (dal 2 al 4 di ottobre) e che anticipa conversando con il manifesto.

Gli incendi in California e Australia ci appaiono come eventi apocalittici. Invece, nei suoi interventi, lei sottolinea spesso che fuoco e altre calamità fanno parte della vita di una foresta.
Tendiamo a vedere le foreste come se fossero qualcosa di immutabile. Gli alberi crescono lentamente e sembrano sempre uguali a se stessi. Invece le foreste sono in continuo cambiamento. Se torniamo in un bosco fra cinquant’anni avrà certamente un aspetto diverso da quello di oggi. Talvolta questi mutamenti sono improvvisi e in ecologia li chiamiamo «eventi di disturbo»: incendi, schianti da vento, attacchi di insetti. Ci sono da sempre, ben prima dell’esistenza dell’uomo. Sottoponendo le foreste per milioni di anni a questo tipo di eventi, l’evoluzione ha selezionato le piante in grado di resistere come quelle dotate di corteccia, un potente termoisolante. Oppure quelle in grado di rinascere dopo un evento distruttivo, diffondendo i propri semi nell’ambiente o rigenerandosi a partire da un tronco danneggiato. Riescono a farlo finché la frequenza e l’intensità rimangono entro un certo livello prevedibile.

È il cambiamento climatico che sta disturbando questo equilibrio?
Con le trasformazioni climatiche provocate dall’uomo le cose stanno rapidamente evolvendo. Aumenta l’intensità delle siccità, il periodo secco da stagionale diventa annuale in luoghi come Australia o California, e questi «disturbi» superano l’intensità che le foreste sono in grado di sopportare. È così che inizia il rischio di superare la loro resilienza, compromettendo anche il lavoro utile che svolgono per noi, come l’assorbimento del carbonio o la tenuta dei suoli.

Uno studio pubblicato ultimamente dalla rivista «Diversity and Distribution» lanciava l’allarme sulle foreste primarie europee. Perché sono considerate così importanti?
Una ricerca recente ha calcolato che un miliardo e mezzo di persone vive a meno di cinque chilometri da una foresta ed è proprio a questa realtà naturale che deve la sua disponibilità di cibo, di acqua e la protezione idrogeologica. Le primarie, cioè mai modificate dall’uomo, sono un tipo particolare di foreste. In Europa ne sono rimaste poche. Più facile trovarne in Amazzonia, Congo o nelle grandi distese artiche di Canada o Siberia. Le più vicine da noi sono in Bosnia-Erzegovina. Ci sono stato: ci si cammina a due o tre metri da terra sui tronchi degli alberi morti, perché nessuno li porta via e rimangono a decomporsi. Studiarle è utilissimo: le foreste primarie costituiscono un modello e indicano quali sono le condizioni ottimali per la loro sopravvivenza: così impariamo a gestire le altre. E poi rappresentano un vero scrigno di biodiversità.

I negazionisti del clima sostengono che l’aumento dell’anidride carbonica stia rendendo la terra più «verde». Lei cosa ne pensa?
Secondo alcuni studi recenti della Nasa, la Terra appare effettivamente più verde a livello cromatico. Ma le ricerche hanno chiarito che il fenomeno si spiega per un terzo con l’espansione delle terre coltivate. Per un altro terzo, con l’espansione artificiale delle foreste allo scopo di combattere la desertificazione, soprattutto in Cina. Infine, un terzo è davvero dovuto all’anidride carbonica e al riscaldamento. Gli alberi stanno colonizzando la tundra, dove prima non crescevano boschi. Nel resto del mondo, l’aumento di anidride carbonica accelera la fotosintesi e la crescita delle piante. Ma questa fertilizzazione ha un limite massimo: per la fotosintesi servono acqua e sostanze nutritive. Quindi, dato che il riscaldamento climatico aumenta la siccità, la fertilizzazione dura solo finché l’acqua è sufficiente, e in molte aree già non lo è più.

Lo scorso anno, si è sviluppato un acceso dibattito intorno a uno studio di Thomas Crowther, secondo cui c’è abbastanza suolo per piantare nuovi alberi e assorbire il carbonio emesso in atmosfera. Erano stime esagerate?
Quelle stime erano certamente esagerate e frutto di un calcolo grossolano, come mostrarono molti articoli critici di risposta. Secondo l’International Panel con Climate Change, la riforestazione e l’agricoltura possono mitigare al massimo il 30% del riscaldamento globale. Le emissioni, però, nel frattempo aumentano e quella percentuale cala. Il primo obiettivo deve essere la loro riduzione. E poi è necessario prendersi cura delle foreste che già esistono. In Italia ci sono 15-16 miliardi di alberi. I progetti di riforestazione prevedono di piantare 70 milioni di nuovi alberi in un decennio, duecento volte di meno.

Le foreste si stanno riducendo anche in Italia?
A causa dello spopolamento delle aree montane, da noi si stanno espandendo al ritmo di 50mila ettari di foreste in più ogni anno. Secondo un recente rapporto della Fao, l’Italia è uno dei dieci paesi con il più alto tasso di loro crescita. Ma l’ammontare di questa espansione è quasi uguale al numero di ettari di foresta persi a causa delle importazioni da Brasile, Paraguay o Romania.

Anche l’attuale pandemia potrebbe essere legata al loro stato di salute…
Per quanto riguarda il Sars-Cov-2 la catena che lo ha trasportato dagli animali all’uomo non è ancora chiara. Ma per altri virus, come Ebola, Hiv e probabilmente anche la Sars, risulta molto chiaro il legame tra degrado delle foreste, disturbo arrecato alle popolazioni animali e aumento delle possibilità di contatto tra le specie selvatiche e uomo. Purtroppo restano temi riservati a scienziati e ambientalisti. Il collo di bottiglia sta nella governance internazionale: siamo troppo ancora costretti negli Stati e il sovranismo ci conduce nella direzione sbagliata. Le sfide globali che ci troviamo ad affrontare, però, travalicano i confini nazionali.

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SCHEDA. «METAMORFOSI» DAL CLIMA AL CIBO

La quarta edizione del festival Food&Science a Mantova, che indaga le «Metamorfosi» si svolgerà dal 2 al 4 ottobre. Tra medicina e agricoltura, alimentazione, tecnologia e innovazione, la rassegna declinerà il tema evidenziando l’urgenza di una metamorfosi culturale necessaria per rivedere il nostro modo di vivere la Terra. Si parlerà di cambiamenti climatici e riscaldamento globale (con, tra gli altri, il Nobel per la Pace Riccardo Valentini e la storica Naomi Oreskes), tutela del suolo (con anche Eva Kondorosi e Wim de Vries), comunicazione della scienza (con Dominique Brossard), biotecnologia (con la genetista e patologa vegetale Pamela Ronald), storia e chimica dell’alimentazione (insieme a ospiti come Harold McGee, Rachel Herz, Ian Tattersall e Rob DeSalle). Si assisterà alla «nascita» di una Foresta nel salone di Palazzo della Ragione, dove lo spazio lasciato vuoto dal distanziamento fisico viene colmato da alberi e piante che raccontano il cambiamento della Pianura Padana (con Ersaf, per l’anno delle salute delle piante, Renato Bruni, direttore dell’orto botanico di Parma, Giorgio Vacchiano, ricercatore in Gestione e pianificazione forestale dell’Università degli Studi di Milano).