Quentin Tarantino: la mia favola tra i ricordi d’infanzia e l’epoca che rivoluzionò il cinema

Al New Beverly di Los Angeles il cartellone è lievemente sbiadito nel caldo ancora torrido del settembre californiano, ma il titolo è sempre quello: «Tarantino Presents: Once Upon Time in Hollywood». Sono passati un paio di mesi dall’anteprima ufficiale al Cinerama Dome, ma il piccolo d’essai su Beverly bl. continua a programmare C’era una volta a Hollywood — non tanto sorprendente visto che il padrone del cinema è proprio Tarantino.

Molti film di Tarantino sono ambientati a LA e legati alla location, ma in questo – il suo maggiore successo commerciale di sempre – la città diventa personaggio a pieno titolo mentre a sua volta il film compenetra la città del cinema. A pochi passi dal New Beverly, ad esempio, un cartellone per il film svettava sopra l’insegna di El Coyote, il ristorante messicano dove Sharon Tate cenò per l’ultima volta quella sera fatale del 8 agosto, 1969 – l’estate di Manson

IN QUELLA estate afosa sembrava mancare l’aria e dietro la coltre di smog stava tramontando un’epoca. Per la verità due. Il vecchio sistema di fare film stava per essere spazzato via dall’avvento della New Hollywood. E stava per volgere a termine anche la stagione spensierata e solare della controcultura che dopo la summer of love di un paio di anni prima sarebbe stata stigmatizzata – almeno nella versione ufficiale – dal sanguinoso Helter Skelter dalla Manson Family.
Tarantino sviluppa la sua trama su questo sfondo restituendo l’America, e il suo avatar – Hollywood – nelle sue componenti essenziali di glamour, narcisismo ingenuità e violenza. «Questo film per me è un lavoro di memoria quanto Roma lo è stato per Alfonso Cuáron», dice il regista della sua opera nona in cui ricostruisce Hollywood come una casa d’infanzia. Un Tarantino inconsuetamente romantico quindi, «buonista» perfino, che escogita un geniale giocattolo per girare di persona gli amati b-movie e serial tv con cui è cresciuto, inventando una filmografia immaginaria, mescolando le carte, riscrivendo la storia e salvando qualche eroe.

Allora, è la lettera d’amore a Hollywood che tutti dicono?
Beh, un po’ si. Nel senso di cinema ma anche come luogo fisico, il quartiere nella contea di Los Angeles. Io abitavo qui nel 1969, avevo sei o sette anni e ricordo tutto molto bene: i programmi alla televisione, le radio locali, gli show per ragazzi del sabato mattina, la musica. La radio dell’epoca accompagna tutto questo film e la voce di quei dj è quasi una voce narrante.

Un documento storico?
Semmai la definirei una fiaba più che una film d’epoca. John Milius quando scrisse la bellissima scenggiatura per The Life and Times of Judge Roy Bean (L’uomo dai 7 capestri) vi aggiunse un celebre slogan che mi è sempre piaciuto: «Se non è quello che accadde, è quello che sarebbe dovuto accadere».

C’entra la nostalgia?
Non credo. Non si tratta di voler tornare a quell’epoca. Fu una stagione breve ed affascinante in cui a Hollywood è cambiato tutto e mi interessava anche «antropologicamente». Come racconta Mark Harris nel suo Pictures of the Revolution si passò in un paio di anni da Mary Poppins a Il Laureato e Bonnie e Clyde. Quei film sono del 1967 e nel 1969 era chiaro che questa era la nuova Hollywood. Istantaneamente qualunque film fatto con la mentalità del 1965 o del1966 apparì disastrosamente superato.

Una versione di quel momento?

Ho preso personaggi veri e li ho mischiati ad altri fittizi, un po’ come ha fatto E.L. Doctorow in Ragtime. E anche fra quelli veri ci sono delle variazioni: Sharon (Tate) è forse la più «filologica». Con McQueen e Bruce Lee, ad esempio, ho cercato di prendere cose che ho imparato sul loro conto, ispirandomi a dichiarazioni in interviste non seguite alla lettera ma estrapolate. Così quando Bruce Lee definisce «finti» i combattimenti di arti marziali ed elogia Muhammad Ali e Sonny Liston, lo fa con quel tono un po’ arrogante che usava; e così per Steve McQueen e i ragazzi Manson quando esprimono il loro disprezzo.

Uno dei memorabili film su Los Angeles …
Abitavo qui nell’anno in cui ho ambientato il film, ho passato buona parte della mia infanzia seduto sul sedile posteriore di una vecchia Karmann-Ghia, guardando dal finestrino mentre Los Angeles scorreva dietro: la mia città. Come il film di Cuáron C’era una volta Hollywood è un ricordo che viene dalla mia memoria e la memoria non è mai del tutto fattuale. Filtrati dai ricordi d’infanzia, tre anni possono ridursi a uno, forse non ti ricordi proprio tutto ma tu non lo sai e mi sta bene così.

Possiamo dire che è il suo film sul cinema. È rivolto per questo ai cinefili?
No cioè si…vabbè se sei Todd McCarthy (critico di «Variety» e «Hollywood Reporter», ndr.) probabilmente coglierai ogni riferimento e ricorderai per filo e per segno ogni attore di cui parlo, ti ricorderai i loro programmi e magari sai pure che fine hanno fatto. Non mi aspetto che tutti lo facciano; il film deve funzionare nell’universo immaginario che ho inventato attraverso i personaggi. Invece se sei interessato, se ti appassiona, allora ci sono molti portali alla Lewis Carroll dove entrare. Alcuni dei film in cui recita Rick (Dalton, il protagonista interpretato da Leonardo di Caprio), rimandano alle carriere di certi attori reali. Ad esempio The Fourteenth Fist of McCluskey è ispirato ad un film di guerra fatto da Roger Corman e interpreatato da Edd Byrnes (Cinque per la Gloria) – anche se il lanciafiamme l’ho aggiunto io. Il fatto che Rick lascia la serie televisive per lanciarsi nel cinema minore è ispirato a un attore che si chiamava George Maharis che lasciò Route 66 ma non riuscì mai sfondare sul grande schermo. Il film di cui Rick conserva a casa il cartellone – Tanner- è basato su Gunman’s Walk (Il sentiero della violenza, 1958) e Rick fa il ruolo che fu di Tab Hunter, e cosi via. Quando il film è uscito in America, per i veri appassionati abbiamo organizzato al New Beverly un mese di retrospettiva ricreando la filmografia immaginaria di Rick Dalton con film veri.

Tra l’altro lei ha una celebre collezione personale di pellicole in 35 millimetri, mi sembra …
Ho iniziato a collezionare film con alcune copie in 16 millimetri, mostri giapponesi e robe così. Erano solo copie in 16 ma a un certo punto mi sono reso conto che alcune di queste per quanto ne sapessi avrebbero potuto essere le ultime in circolazione, copie uniche. Quindi c’è una responsabilità nel collezionarle, quella di preservarle. E non basta conservarle in un caveau, bisogna mostrarle. Sono fatte per conoscere la luce di un proiettore e far divertire un pubblico e lo prendo molto sul serio. È quello che mi piace fare nella mia sala cinematografica, il New Beverly. A volte programmo un paio di film e non so se verrà qualcuno a vederli, ma va bene lo stesso. A volte si tratta della prima proiezione in quarant’anni e in tutto il mondo.

Nel film Rick Dalton a un certo punto espatria.
Si, come facevano in molti a quei tempi. Rick avrebbe potuto andare nelle Filippine a fare l’americano che guida i filippini contro i giapponesi – lo fecero molti attori dell’epoca. Un’altra opzione all’estero erano i film di mostri giapponesi a cui lavorarono attori come Nick Adams o Russ Tamblyn. Ma il mercato più florido di gran lunga era l’Italia con gli «spaghetti western», specialmente per chi aveva avuto delle esperienze in serie western televisive. Per molti divenne un rito di passaggio. Certo tanti altri non avrebbero mai accettato di farlo, consideravano ridicola l’idea di western fatti da italiani, li disprezzavano. Io penso che non capissero un cazzo ma va bene lo stesso, era un pregiudizio anche generazionale. Sta di fatto che Rick è un po’ così. Va a Roma e non si rende conto che su Nebraska Jim sta lavorando con uno dei grandi in assoluto – Sergio Corbucci. Qui mi sono un abbastanza divertito. La clip che si vede del film inventato Operazione Dynamite è tratta in realtà da un vero film di Corbucci, Bersaglio Mobile, ma invece di Corbucci nel mio film cambio il regista e lo faccio firmare da Antonio Margheriti. Volevo mostrare che anche in Italia Rick è comunque un perdente. Arriva e ha la fortuna di girare con Corbucci uno dei geni assoluti del cinema italiano in quel momento ma non lo capisce, fa lo stronzo sul set e Corbucci non lo assume più. Poi Nori (la vedova di Corbucci, ndr.) mi ha chiesto: «Perché hai attribuito una clip di Sergio a Margheriti?». Perché Rick non è abbastanza furbo da lavorare due volte con Corbucci!