Il Pd sul filo del panico. Delrio: dal M5S solo trasformismo.

Il ministro capofila del dialogo semina dubbi: “Lega e 5Stelle poi si eleggono il prossimo capo  dello Stato, lo sapete?”. Muro dei renziani: “Pur di avere i nostri voti Di Maio vieterebbe il web”
ROMA. A un certo punto si affaccia il panico. E conquista i cuori e le menti della moltitudine di peones che da un paio d’ore osservano attoniti il Pd che si frantuma. È quando Andrea Orlando pronuncia poche, brutali sillabe: “Lo scenario più probabile è il ritorno al voto a breve”. Ecco la leva con cui provare a spostare gli equilibri e conquistare alla causa governista il gruppone appena entrato in Parlamento. Anche Matteo Renzi, che alla riunione non partecipa, avverte l’odore della paura. Sa che è l’arma segreta del club di ministri guidato da Dario Franceschini. E prepara la reazione in due mosse. Primo: vuole controllare il Pd, imponendo il congresso entro febbraio 2019. Secondo: non intende far gestire agli avversari interni la trattativa sull’esecutivo, quando anche il secondo giro di consultazioni andrà a vuoto.

Ore 18, salone del Nazareno. Deputati e senatori aspettano soltanto la scintilla. Sanno che Franceschini ha trascorso l’intero pomeriggio in Transtlantico, catecchizzando chiunque gli capitasse a tiro. “Ma lo sapete che in Europa sperano che ci sia dentro almeno Berlusconi, per temperare gli effetti di un eventuale esecutivo grillo-leghista? E se invece prosegue lo stallo, noi non possiamo soltanto dire “no, no, no”. Se tra un mese veniamo chiamati alla responsabilità per il bene del Paese, che facciamo?”. È quel governo del Presidente che il ministro non ha voglia di escludere. Dirà più o meno le stesse cose di fronte ai gruppi, qualche ora dopo. “Lega e cinquestelle alleate eleggerebbero il prossimo presidente della Repubblica e vincerebbero tutte le elezioni regionali. Nessun problema, per voi?”. Domanda retorica, perché l’offensiva della “corrente di governo” è ufficialmente partita.

Renzi è lontano da quella sala. I suoi fedelissimi, però, lo aggiornano in tempo reale su WhatsApp. E lui ordina il contrattacco. Matteo Orfini picchia durissimo, forse come mai in passato. “Con i cinquestelle non si può proprio parlare – lo insegue Anna Ascani – perché sono fuori dallo spettro della democrazia rappresentativa”. Ma è solo l’antipasto. Quando Francesco Boccia teorizza un accordo organico con i grillini, chiede la parola Ettore Rosato. “Pur di avere nostri voti per fare il premier, Di Maio sarebbe disposto a votare qualsiasi cosa gli proponiamo, anche vietare l’uso del web!”. Risate, applausi, mugugni.
È come se da un corpo a corpo i duelli si moltiplicassero. In sala cala il gelo. E Martina, in mezzo, non riesce a tenere insieme due mondi che lavorano ormai con schemi diversi e lottano entrambi per la sopravvivenza. Si alza Graziano Delrio, rinfodera le aperture di poche ore prima e si scaglia contro Franceschini: “Dario, ti rendi conto che quella di Di Maio è una proposta trasformistica e di potere?”. Ormai il rubinetto del malcontento è aperto. E quaranta giorni dopo la batosta, sgorga fuori il risentimento. “C’è un proccupante deficit di classe dirigente nelle regioni in cui si vota”, avverte Piero Fassino. Ed Enza Bruno Bossio: “Abbiamo provato a dare risposte su tutto, ma senza trasmettere un sentimento di fiducia nel futuro”.

È soltanto il primo round. E quando tutto finisce, i soldati semplici abbandonano storditi la sala. Sanno che il gong decisivo suonerà in assemblea nazionale, quella convocata per il 21 aprile. Il bivio, a questo punto, è soprattutto di Renzi. I suoi, da Graziano Delrio fino a Matteo Richetti, Ettore Rosato e Debora Serracchiani, spingono per un congresso lampo, in autunno. E comunque entro febbraio 2019, se Martina fosse disposto ad accettare un nuovo incarico a tempo, che nello statuto non esiste ma politicamente è praticabile. Il problema è che il reggente per ora dice no e punta almeno a scavallare le Europee.
E allora il Giglio magico torna all’ipotesi originaria, al reset delle cariche in assemblea e alle primarie entro il 2018, accompagnate dalla reggenza di Orfini. In fondo, è la linea proprio del Presidente dem: “Se in assemblea non c’è una buona collegialità su un segretario che tira avanti per un po’, fino al congresso- spiega – immagino che vengano ritirate le candidature e si proceda con le primarie”.

Fonte: La Repubblica, www.repubblica.it/

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