Il Pd diviso va alla conta: cresce la fronda anti Renzi.

Franceschini: niente accordo con Di Maio. Ma è scontro sul no assoluto a trattative. La minoranza: referendum tra gli iscritti. Nuovo segretario senza fare le primarie, si tratta
ROMA. Un alleato, almeno uno Matteo Renzi prova a riconquistarlo in gran segreto al Nazareno. Con Graziano Delrio si ritrova faccia a faccia di buon mattino. Discutono, provano a chiarirsi. I delegati della direzione che fanno capo al ministro, d’altra parte, sono preziosi per evitare un clamoroso ribaltone interno. Ma al Nazareno lo scontro resta comunque violentissimo. I big vogliono la resa del segretario, senza condizioni. E sono pronti alla conta nei gruppi parlamentari, per scegliere due capigruppo che “gestiscano” le consultazioni senza sbattere la porta in faccia al Quirinale, in caso di appello alla responsabilità di fronte allo stallo sul nuovo governo. Il nodo resta la possibilità di aprire una discussione con il M5S, senza il quale nessuna formula di governo è possibile. Per evitare la frantumazione, gli ambasciatori delle due cordate lavorano in queste ore anche a un clamoroso compromesso: il prossimo segretario non sarebbe scelto da un congresso, ma durante un’assemblea nazionale dem che dovrebbe tenersi in aprile, dopo le consultazioni. Non un reggente, quindi, ma una figura di compromesso destinata a durare fino alla scadenza naturale nel 2021.

Sia chiaro, i rapporti sono deteriorati oltre il livello di guardia. Paolo Gentiloni si muove quasi come un oppositore del renzismo. Dario Franceschini pretende che il segretario abbandoni il timone a un traghettatore scelto dai rivoltosi. E anche Marco Minniti e Maurizio Martina, Anna Finocchiaro e Andrea Orlando sono ormai avversari del capo. Il partito è appeso a un filo, insomma. E così, la leadership renziana. “Mi sono dimesso, ho concesso la mia testa, cosa devo fare di più? Io sono fuori – scherza con gli amici – dimenticatevi di me”.

Un primo segnale di disgelo il segretario lo lancia nel pomeriggio. Decide di disertare la direzione di lunedì e affida al suo vicesegretario la relazione. E proprio Martina, in rotta con il capo, assicura che proporrà il “no” a ogni accordo con i cinquestelle. Ma è soltanto un modo per allontanare la resa dei conti. Sulla carta, infatti, quasi tutti i big – ad eccezione delle minoranze di Emiliano e Orlando, che chiedono un referendum tra gli iscritti per decidere – sono ostili a un patto con il Movimento. “Non ho mai pensato sia possibile – sostiene Franceschini – L’unica strada giusta è andare all’opposizione. Nel Pd siamo e saremo tutti d’accordo su questo. Ma dovremo però ragionare degli errori compiuti e delle strade da scegliere per rifondare sia il partito che il nostro campo”. Ecco il vero nodo che ritorna: il pensionamento anticipato del leader di Rignano. In molti gli voltano le spalle, in queste ore. Un pressing fortissimo che ruota attorno alla figura di Martina. C’è chi vorrebbe affidargli subito la transizione, per arrivare all’assemblea nazionale d’aprile e scegliere senza ostacoli un successore di Renzi. Ma l’obiettivo del leader è evitare proprio questo scenario.

Vuole il Pd all’opposizione, Renzi. Lasciare logorare gli altri al governo. Riorganizzarsi per elezioni anticipate. “Non accetterò mai un esecutivo con Di Maio, non esiste. Berlusconi e Salvini? Stessa risposta: mai con gli estremisti. Se qualcuno vuole proporre un accordo con loro, lo faccia in direzione”. Il segretario, quindi, non ha intenzione di ascoltare gli eventuali richiami del Colle alla mediazione. Esattamente il contrario di quanto pensano i suoi avversari interni. La resa dei conti, però, si consumerà in due tempi. Il primo tempo è previsto in direzione, dove però i renziani contano sulla carta su numeri amplissimi. Certo, lo smarcamento di Martina e Franceschini – assieme ai dubbi di Delrio – rendono la partita più incerta. Ma il passaggio più delicato resta il secondo, e cioè la scelta dei prossimi capigruppo dem. Renzi, per adesso, assicura che non proporrà Maria Elena Boschi. Ma il problema è che il presidente del gruppo si vota a scrutinio segreto. E che a Palazzo Madama i renziani rischiano di non godere della maggioranza che tutti si aspettano. Proprio da questa considerazione nasce la mediazione a cui lavorano in queste ore i capi della diplomazia.

La trattativa è ancora allo stato embrionale. Ma l’idea sarebbe quella di individuare due figure di compromesso per il ruolo di capigruppo alla Camera e al Senato. Una diretta espressione dei nuovi avversari del leader, l’altra più spostata sul renzismo. Entrambe, però, dovrebbero attestarsi sulla linea del “no” secco a ogni ipotesi di governo. Il secondo punto dell’accordo “salva Pd” passerebbe dalla scelta di un profilo di mediazione per la nuova segreteria, da eleggere durante un’assemblea nazionale in aprile. Niente congresso né primarie, dunque, ma un accordo per gestire una legislatura d’opposizione. Lo statuto lo consente, a patto che il nuovo leader sia votato dai due terzi dell’assemblea.

In teoria, i renziani sfiorano da soli questi numeri. Ma visto che i nemici si moltiplicano, servirebbe comunque un’intesa con il resto del partito. La carta è tenuta rigorosamente segreta, ma in queste ore i nomi fioccano: da Sergio Chiamparino a Nicola Zingaretti, passando per Carlo Calenda. Difficile però che il nome esca da questa terna. Serve un profilo capace di unire, così alto da evitare la disgregazione finale del Pd. “Alla Veltroni”, spiegano gli ambasciatori per chiarire l’identikit.

Fonte: La Repubblica, www.repubblica.it/