Il partner riluttante

di Ezio Mauro
L a forza delle cose ha preso la guida della crisi, ha sopravanzato i veti e le pretese, ha ignorato i dubbi e le resistenze, incanalando le consultazioni del Quirinale verso un governo formato dal Movimento Cinque Stelle e dal Partito democratico. Ci sono ancora le trappole, eccome, gli intoppi e le incognite dell’ultima ora, come avviene sempre quando si esce dal sistema maggioritario secco e a ogni crisi bisogna mettere in piedi una coalizione. Ma sia Di Maio che Zingaretti ieri hanno portato ufficialmente al presidente Mattarella un accordo politico che farà salire insieme al governo due forze fino a ieri concorrenti, anzi antagoniste, addirittura nemiche.
Questa precarietà dell’intesa — senza tradizioni condivise, riferimenti culturali simili, valori comuni, pratiche politiche omogenee e affini — fa sì che la crisi finisca con un governo, ma senza vincitori. Sul campo resta solitario ed evidente soltanto lo sconfitto, Matteo Salvini.
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segue dalla prima pagina V oleva tutto il potere su di sé quando ha aperto la crisi senza far bene i conti coi meccanismi della democrazia parlamentare, non accontentandosi del potere legittimo e costituzionale. Oggi inevitabilmente si scarica su di lui tutto il peso della disfatta, perché con un colpo di testa ha portato la Lega a perdere la vicepresidenza del Consiglio, sette ministeri, il Viminale e il commissario europeo, isolandola dopo aver smarrito il filo di qualsiasi possibile alleanza: passando in dieci giorni dal ruolo di uomo forte che si sentiva l’Italia in mano a mendicante politico, che dopo aver implorato Di Maio di ritornare a casa dovrà presentarsi col cappello in mano ad Arcore da Berlusconi.
Lo sfondamento istituzionale tentato da Salvini, sfiorando il tabù dell’autoritarismo bonapartista, è certo una delle circostanze che hanno determinato non soltanto l’inizio della crisi — come pensa il leader della Lega — ma in realtà il suo esito. In pratica, il ministro dell’Interno ha alzato l’asticella delle elezioni che pretendeva dal Quirinale, fissando una posta di democrazia e di eccezione costituzionale, che ha trovato un’immediata reazione contraria, coalizzando interessi diversi e obiettivi distinti. Naturalmente non è il caso di parlare di fascismo, vista anche la sproporzione tra il termine e i personaggi: basta chiamare con il nome giusto i fenomeni a cui stiamo assistendo, le pulsioni razziste, le pratiche di governo feroci con i più deboli, l’intonazione xenofoba di ogni politica, la scelta antieuropea, le tentazioni putiniane, l’allontanamento dall’Occidente. Potremmo dire che con Salvini pretendente all’onnipotenza il sovranismo ha cercato di realizzare in Italia la separazione concreta tra democrazia e principi liberali, dando vita a un esperimento politico capace di concretizzare nel nostro Paese lo spirito dei tempi in cui viviamo.
Questo progetto di destra estrema richiede un contrasto forte e largo da parte di tutte le forze politiche responsabili: e avrebbe potuto essere la cornice culturale della nuova intesa tra M5S e Pd, partendo da un dato di fatto rilevante, e cioè il voto comune dei due partiti in Europa a favore di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione Ue. Così l’accordo di governo avrebbe trovato un suo disegno politico, e non sarebbe nato soltanto dalle convenienze casuali e spicciole dei contraenti. Ma per avere un disegno bisogna saper disegnare. Invece è mancata proprio una drammaturgia della crisi, capace di costruire un percorso e un approdo, come ha indicato Scalfari. E ieri, mentre Zingaretti (con la fatica che ogni volta è necessaria per costruire una posizione unitaria nel Pd) si è sforzato di dare una vernice culturale e di respiro alla nuova alleanza, parlando di «governo di svolta e discontinuità», Di Maio è sembrato un partner riluttante, che dà via libera all’intesa non guidando il suo partito, ma inseguendolo: con una evidente riserva mentale nostalgica della Lega. Ha voluto ribadire che Salvini gli aveva promesso la premiership se fosse tornato all’alleanza appena sciolta, ha aggiunto di aver rifiutato «con serenità e gratitudine», e soprattutto ha rivendicato «il lavoro fatto con la Lega in questi 14 mesi», indicando proprio nell’endorsement sovranista di Donald Trump a favore di Conte la conferma che «siamo sulla strada giusta».
Nessuno si aspettava un’abiura dall’ex vicepresidente del Consiglio, che in queste ore deve difendere se stesso e il suo ruolo in caduta libera dentro il partito e fuori. Ma la debolezza culturale con cui viene rivestito il governo di alleanza col Pd è stupefacente, una specie di profilassi minimalista, come se ci volessero i guanti per maneggiare questa intesa, una sorta di spoliazione di ogni significato, quasi che i grillini — spaventati dal peso postideologico della tradizione di sinistra — volessero trascinare l’accordo verso il punto zero in cui vivono e reinventano quotidianamente la storia del Paese: mentre invece il Pd ha un evidente bisogno di rivestire di significato un’intesa troppo repentina per stare in piedi da sola. Se il senso politico della nuova coalizione è il nulla, se l’orizzonte di governo è quello degli ultimi 14 mesi, se la “gratitudine” è tutta rivolta all’offerta disperata di Salvini (altro che uomo forte), se davvero come ha detto ieri Di Maio destra e sinistra non esistono più, allora perché i Cinquestelle si sono separati dal vecchio partner? Solo perché il leader leghista lo ha deciso, svelandoli incapaci di vita propria e di politica autonoma? E cosa significa il silenzio di Di Maio davanti alle critiche di Conte in parlamento a Salvini? Visto che per lui destra e sinistra non esistono, qual è il suo giudizio sulle politiche, i metodi, la cultura del ministro dell’Interno? Come le chiama?
Sono le questioni irrisolte che pesano — ben più della corsa alla vicepresidenza — davanti al Pd. Con chi si stanno alleando i democratici? E per fare che cosa? Questa ricerca di senso è il cuore della politica. Ci sono ragioni obiettive, d’emergenza, per dare un governo al Paese evitando un autunno complicato dal punto di vista economico, c’è una salvaguardia istituzionale da garantire, c’è una destra sovranista da arginare, c’è un rischio Quirinale dietro il prossimo angolo. La forza delle cose, appunto. Ma non si vede nient’altro, non si sa nemmeno come definire questo governo, al di là dei colori calcistici: è un’alleanza populista e riformista? O invece un test sulla mutazione della sinistra? O ancora uno stato di necessità tra destra e sinistra? Oppure semplicemente non può avere un nome perché non ha un carattere, un’anima e un’identità, per consentire ai Cinquestelle di mantenere indefinita — a somma zero — la loro natura? Si risponderà banalmente che l’Italia ha bisogno di programmi concreti, di onestà e di buongoverno: tutto il resto è Novecento. Naturalmente, purché si sappia che queste sono precondizioni. Poi tocca alla politica, in qualunque secolo. Ma ogni scelta, anche la più tecnica e la più neutra, nasce da un’opzione culturale, si iscrive in un disegno generale, concorre a formare una visione del mondo. Ascoltando il riduttivismo politico di Di Maio, la deprivazione di senso per il nuovo governo, sembrava ieri che i grillini, usciti di casa dopo sette giorni di lutto per l’abbandono di Salvini, avessero incontrato per caso il Pd all’angolo di strada. Così non si va lontano. La forza delle cose, senza politica, è in realtà una debolezza.
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