Il nuovo presidente della Cei Zuppi, il don Matteo di tutti

DI CONCITA DE GREGORIO
Avviso qui che non ci saranno cenni critici, in queste poche righe di allegrezza per la nomina di MatteoZuppi al vertice della Conferenza episcopale: mi dispiace per i galli da combattimento del dibattito pubblico ma lo dico prima, mi dichiaro: chi semina zizzania non troverà qui pane, può voltare pagina e cercar tempesta altrove. D’altra parte sono in buona e larga compagnia, per una volta. La notizia è stata accolta con letizia dai movimenti pro vita e dai combattenti filo curdi, da sindacati e da capitani d’impresa, dagli attivisti dei centri sociali occupati e dalla nomenclatura cattolica che – come sempre, da sempre – governa il Paese. La festa più grande e più bella l’hanno fatta i senza tetto di Trastevere, ieri pomeriggio, riuniti al bar San Calisto a stappare una birra in suo onore. Sono tutti amici suoi, lo chiamano per nome, Don Matteo. Il loro parroco. Un po’ dipende dalla faccia, anche. Perché avere una faccia come quella è un dono: è un volto che ride anche da serio, che pazienta e accoglie da fermo. Un po’ dipende dal carattere, certo, e dalla vocazione all’ascolto. Ha sempre tempo, per tutti, non si sa dove lo trovi. Si preoccupa se un ragazzo è scappato da casa, la madre lo chiama e lui lo cerca. Si ricorda i nomi dei figli di tutti, dei padri e dei nonni. Accetta il confronto con chiunque, se non hai fede non importa, entra. Da quando lo conosco, e sono molti anni, l’ho sentito indicare come candidato ideale per quasi qualsiasi ruolo. Una volta Romano Prodi, parlando di politica, mi disse: “Ci sarebbe, a Bologna, un nome.
Purtroppo è già impegnato a far da cardinale, forse più avanti il Papa”. È l’uomo ideale, don Matteo, per fare da allenatore di una squadra di calcio e l’amministratore di condominio, il giudice di pace e il mediatore, il capo di governo e il moderatore di dibattiti, la spalla e il primo attore, la trattativa per il rilascio di un ostaggio. Sarebbestato – mi disse una volta al funerale di una celebre psicoanalista il figlio di lei, Zuppi celebrante – “il marito ideale di mia madre, forse di tutte”. Non se ne abbia a male, era la verità: essere ascoltati e “‘visti” è il massimo esercizio di seduzione, o di proselitismo.
Un prete di strada alla guida della Cei è una rivoluzione, questa la sintesi. D’altra parte la sua frase ricorrente è: “Dobbiamo cambiare prospettiva”. Cambiamola, sarebbe ora. Papa Francesco deve essersi rivisto in lui ma non c’è da fare troppa psicologia, piuttosto politica: la politica della Chiesa, il più importante agente sul mercato. Zuppi viene dall’esperienza della comunità di Sant’Egidio, cita Alda Merini e De André, ha studiato da ragazzo al liceo Virgilio, ha molti fratelli e ogni tanto penso alla madre di tutti loro: uno, spero di non sbagliare, era proprio psicoanalista. Dev’essere stata una famiglia in cui si stava attenti. A Bologna dorme alla casa del clero coi preti anziani, non in Curia, gira in bicicletta, ha aperto la cattedrale ai dibattiti facendoci entrare chi non ci era stato mai, Le Notti di Nicodemo, è salito sul palco del Primo maggio e ha stretto il patto per il lavoro, organizza pranzi in chiesa per chi non ha soldi e tratta con successo con chi ne ha molti. Sa che il contrario della paura non è il coraggio ma l’amore.
Quando gli hanno detto: vedi che ti fanno presidente della Cei ha risposto “macchè Cei, vado a Granaglione”, un paese di duemila abitanti dell’Appennino. Poi fa il G20 interreligioso e arriva Draghi. Chiama Elvira che ha perso il lavoro e la invita a far due passi. Lo so, c’è dell’entusiasmo. Ma è così raro che accada una cosa bella, di questi tempi. È così nuovo che qualcuno a cui dici sono perso, Matteo, ho smarrito la rotta ti risponda abbracciami che ecco: bisogna farci caso, e continuare a sperare.
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