Il mondo vive sul baratro di un’apocalisse continua

di Alessia Rastelli

«Ho scritto un libro che indaga l’idea di apocalisse come metafora di un’imminente fine del mondo e scava dentro l’ansia per un futuro oscuro, incerto. Un concetto e uno stato d’animo che, come vediamo in quest’ultimo periodo, possono essere nutriti nel corso della storia umana da fatti concreti e reali, come carestie, genocidi, guerre. Rischiamo di vivere sul punto di un’apocalisse continua. E di perdere la fiducia nel progresso se diventa solo il perfezionamento di tecnologie con cui finiamo per autodistruggerci».

Mark O’Connell parla con «la Lettura» da Dublino. Irlandese, 42 anni, si fa conoscere nel 2017 con un’opera di tutt’altro tono, Essere una macchina, edita in italiano da Adelphi l’anno successivo: un reportage letterario sul Transumanesimo, tra chi cioè aspira a sconfiggere la morte grazie alla tecnologia, trasformando noi esseri umani, almeno in parte, in macchine. Già tre anni dopo l’autore intuisce che lo scenario sta cambiando e pubblica Appunti da un’Apocalisse, tradotto dal Saggiatore: resoconto di un viaggio — dalla Scozia al South Dakota a Los Angeles, dalla Nuova Zelanda a Chernobyl — compiuto prima della pandemia tra chi, convinto che la fine del mondo sia vicina, sta già cercando una via di fuga. O’Connell scrive che «i segni dell’apocalisse si vedono ovunque» e parla di crisi tra loro collegate, della possibile diffusione di nuove malattie, di emergenza climatica, di ricchezza e potere nelle mani di pochi, ma anche di «antiche alleanze e concessioni postbelliche che hanno subito un ridimensionamento preoccupante».

Si immaginava una guerra come quella in Ucraina?

«Assolutamente no e, analogamente, per quanto in Appunti da un’Apocalisse facessi riferimento all’ipotesi di pandemie virali, non immaginavo qualcosa di simile al Covid. La mia intenzione non era tanto dare una visione del futuro, quanto esplorare gli effetti emotivi e intellettuali dell’ansia per il domani, del vivere con la sensazione che in ogni attimo l’equilibrio di ciò che chiamiamo civiltà possa essere distrutto».

Lei racconta che uno dei suoi «primi ricordi sulla fine del mondo» risale a quando era bambino e suo zio, usando «tre mele e due piccole clementine», cercò di spiegarle «i probabili esiti di uno scontro nucleare tra Stati Uniti e Russia». Avrebbe mai creduto che questa minaccia sarebbe tornata?

«Era come un vulcano in letargo: puoi smettere di pensarci per un po’, ma non dire che non erutterà più. Finché esiste la possibilità che una bomba atomica venga sganciata, non si sfugge all’idea che la vita sul pianeta possa essere spazzata via, e certamente questa prospettiva appare più reale ora che negli ultimi anni. Tuttavia io non credo sia così probabile e diffido dal concepire la guerra in Ucraina in termini di minaccia nucleare. Ovviamente c’è, incombe sullo sfondo, ma questo tipo di pensiero apocalittico rischia di portare con sé un certo narcisismo, opposto all’empatia. È come volere mettere al centro noi stessi, noi dell’Europa occidentale, mentre il conflitto riguarda in primo luogo gli ucraini. Forse non sempre parliamo di loro nel modo giusto».

Che cosa intende?

«Come mi ha fatto notare un’amica che viveva a Kiev fino a poco prima dell’invasione, si tende in questo momento ad attribuire agli ucraini un’aura di straordinarietà. Certo, sono indubbiamente molto coraggiosi, ma la categoria dell’eroismo può essere fuorviante, perché presuppone una differenza intrinseca o una qualità unica in un individuo o in un popolo. Mentre gli ucraini sono persone come noi. L’ultima volta che la mia amica li ha visti, i suoi conoscenti di Kiev ballavano nei locali o bevevano caffè nei bar. Ora molti sono profughi o impugnano le armi perché una situazione insopportabile li costringe ad agire in modi che, solo poco tempo fa, avrebbero trovato impensabili. Lo stesso credo valga per il loro presidente Volodymyr Zelensky».

Nel libro confronta la minaccia nucleare con quella climatica e cita l’autore tedesco Hans Magnus Enzensberger che, già negli anni Settanta, definì quella ambientale un’apocalisse più lenta, «in slow motion». Le due prospettive ora si sovrappongono?

«Il disastro nucleare è una minaccia, quello climatico sta già avvenendo. Solo pochi giorni fa, la piattaforma di ghiaccio Conger, grande quanto Roma, è collassata per le temperature record in Antartide. La combinazione del dramma ambientale e del rischio nucleare si può riassumere nella dura immagine di un malato di cancro terminale che è al contempo sotto il tiro di un pazzo con una pistola».

Pensa che gli scenari apocalittici del libro, cui si aggiungono Covid e guerra, siano in qualche modo collegati?

«Senza dare alle mie parole alcun significato cospiratorio o paranoico, la pandemia è stata così divorante, colpendo ovunque quasi ogni aspetto della vita, che sarebbe impossibile immaginare qualcosa di non collegato. Vladimir Putin, ad esempio, terrorizzato di ammalarsi, si è isolato completamente. E in questa fase l’idea di invadere l’Ucraina, ispirata dalla volontà di restaurare la grandezza imperiale della Russia, si è rafforzata. Tutto è connesso in termini di cause ed effetti: il Covid, la crisi climatica, la globalizzazione, il nazionalismo, la guerra».

All’inizio di «Appunti da un’Apocalisse» dice che «le scenografie raffinate della politica mondiale, i salotti e i candelabri, sono smantellati, scompaiono nel retroscena, rivelando gli spietati meccanismi del capitale».

«Quelle pagine in particolare le scrissi già nel 2017, dopo la Brexit e l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti. Avevo la sensazione che l’ordine globale neoliberista, apparso per tanto tempo inamovibile, si stesse rivelando più fragile del previsto. Ma una delle idee del libro è che il capitalismo trae energia da caos e dissoluzione. Gli stessi oligarchi russi sembrano un esempio estremo degli aspetti peggiori del capitalismo, nel senso che la loro ricchezza è stata costruita nel caos della caduta dell’Urss, acquistando beni statali. Sorprendente è che i Paesi europei e soprattutto il Regno Unito arrivino solo adesso a una dolorosa consapevolezza di quanto siano legati agli interessi commerciali di quegli oligarchi».

Che cosa pensa della reazione dell’Unione Europea?

«È meraviglioso che tanti Paesi stiano aiutando i profughi. In Irlanda ci sono negozi dove possono ricevere gratuitamente beni di prima necessità e ovunque si vedono bandiere ucraine. Al contempo questo ci interroga su quanto fallimentare sia stata, invece, l’accoglienza di persone in fuga dal Medio Oriente, da situazioni altrettanto terrificanti. È innegabile, purtroppo, che dietro ci sia il razzismo».

L’Irlanda, Paese dell’Ue ma non della Nato, ha scelto di inviare all’Ucraina solo dotazioni difensive. C’è un dibattito interno su questo tema?

«Sì, se ne discute. È un argomento molto complicato. Dietro la scelta dell’Irlanda credo ci sia la valutazione che la sua neutralità valga di più, anche per il mondo, della piccola quantità di aiuti militari a cui potrebbe contribuire».

Da indagatore dell’universo tecnologico, come valuta in questo momento l’uso di internet e del digitale?

«Da una parte la guerra esaspera la propaganda e la diffusione di fake news, ma dall’altra abbiamo a disposizione una quantità d’informazioni come mai prima. Inoltre, almeno fuori dalla Russia, in Occidente, seppure da tempo si parli di Putin come maestro della disinformazione, chi sta vincendo la battaglia comunicativa in realtà è Zelensky».

Uno dei suoi viaggi nell’apocalisse fu in Ucraina, nella zona di alienazione di Chernobyl. Sia l’ex centrale sia quella attiva di Zaporizhzhia sono state coinvolte nell’invasione e negli attacchi dei russi. Lo scorso 4 marzo Zelensky ha parlato di «terrorismo nucleare».

«È uno dei tanti modi in cui l’abietta barbarie della leadership russa sta emergendo in questo conflitto. Se Boris Johnson o Trump hanno evocato con la retorica l’idea di riportare i rispettivi Paesi a una precedente grandezza, Putin è su un livello diverso: lui è un despota e vuole attuarlo nei fatti. Se penso a Chernobyl ho in mente i cosiddetti “auto-coloni”. Persone che, già poco dopo il disastro del 1986, tornarono a vivere abusivamente nell’area di alienazione: la zona di 30 chilometri, ancora radioattiva, attorno a quella più contaminata vicino all’ex centrale. Non riuscivano a vedersi altrove ed è terribile, dopo quanto hanno già sofferto, che non possano trascorrere gli ultimi anni liberi dagli orrori della storia».

 

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